Prigionieri
della «bile nera»

da Il Sole 24 Ore – 19 febbraio 2023 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi affronta il tema della malinconia.

Quando nel 1996-’97, dopo un restauro pluriennale, si stava per allestire la nuova Pinacoteca aggregata dal cardinale Federico Borromeo alla Biblioteca Ambrosiana, come prefetto di quell’istituzione, coi miei collaboratori storici dell’arte avevo convenuto di inserire – accanto ai grandi capolavori di Leonardo, Botticelli, Raffaello, Tiziano e così via – un dipinto indecifrabile ma suggestivo. I critici non s’erano mai accordati sul titolo da assegnargli: una donna a busto nudo con la mano premuta su un seno e con un volto tenero eppur cupo stava china su un tavolo ove erano deposti un antico strumento musicale a corda e un astrolabio.

L’autore era un pittore svizzero, Giovanni Serodine, nato ad Ascona nel 1600 e morto a Roma nel 1631, dove aveva appreso la lezione caravaggesca: infatti, nel quadro intensi squarci di luce si stemperavano in lievi chiaroscuri. Quella donna era forse l’emblema della Scienza o dell’Arte, dati gli oggetti che le stavano innanzi? A prevalere tra gli studiosi fu, invece, un altro soggetto: quella figura femminile sarebbe invece l’iconografia della Malinconia, un sentimento che l’etimo greco innesta nella corporeità – mélas cholê, «bile nera» – ma che in realtà si ramifica nella psiche e nella mente, creando una sensazione dolce e amara al tempo stesso, qualcosa di simile all’intraducibile saudade brasiliana.

Attorno ad essa è fiorito un arcobaleno letterario, filosofico e psicologico coi più diversi colori che sfumano dal violetto della depressione al rosso della genialità e intensità sentimentale. Un’esperienza che già si intuiva in filigrana nella delusione di Gilgamesh, l’eroe dell’omonima epopea sumerica, spogliato da quell’immortalità a cui si era aggrappato, ma che si ritrova persino nelle pagine di un romanzo recente, la Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (Voland 2013). A guidarci tra le penombre di questo status interiore è ora un saggio affascinante (se l’aggettivo può connettersi con quella sensazione), intitolato con un aggettivo ossimorico In-quieta malinconia, ove appunto s’intrecciano tra loro in contrappunto due sensazioni, una serena e sospesa tranquillità e una tesa e sotterranea inquietudine.

L’autrice è una studiosa olandese che vive tra Amsterdam e Parigi, Joke J. Hermsen, e il suo scritto ha registrato un successo inatteso, anche perché apre orizzonti spirituali sorprendenti, coniugando la malinconia con l’arte, con l’infanzia e la stessa nascita che è già in dialettica con la morte, ma anche convocando l’ansia, la catarsi e la speranza, la nostalgia del passato e l’amarezza del presente. Nelle sue pagine Hermsen fa brillare una sorta di stella polare, la citatissima Hannah Arendt coi suoi molteplici testi, in particolare la nota Vita activa (Bompiani 2017). A lei, però, è accostata una costellazione di altri autori fondamentali, a partire dall’antica (1621) Anatomy of Melancholy di Robert Burton (Malinconia d’amore, Rizzoli 1981), scendendo fino a Kierkegaard e al suo Concetto d’angoscia (Bompiani-RCS 2013) e a Freud con Lutto e malinconia (Boringhieri 1976), e aggiungendo il corollario di varie pagine di Lou von Salomé.

Ovviamente la nostra attenzione punta alla dimensione religiosa che in questo saggio è solo accennata o tenuta in sottofondo. Viene, ad esempio, ignorato il Ritratto della malinconia (Morcelliana 1990) dell’importante teologo e filosofo tedesco Romano Guardini, nato però a Verona nel 1885 e morto a Monaco di Baviera nel 1968. In quel libro egli confessava: «Mi sento sprofondare nel tormento della malinconia più cupa; i pensieri si aggrovigliano talmente che non so più districarmene… Fin che la sofferenza dura, è un tormento immane. Ma poi il bubbone scoppia e vi si scopre al di sotto la più ricca e attraente fecondità… A mano a mano con l’aiuto di Dio si impara a restare fiduciosi, attaccati a Dio, anche nell’istante della sofferenza; si impara a ritornare a Dio in modo veloce».

Agli occhi di quel teologo la malinconia è, certo, una voragine in cui si scivola sprofondando sotto il cielo tenebroso dell’esistenza ferita. Ci si sente come prigionieri di un groviglio inestricabile. Eppure questo luogo oscuro dell’anima non è solo negativo, può divenire un grembo fertile che genera luce, a patto che non ci si rinchiuda in sé stessi ma ci si aggrappi a una mano trascendente. È interessante notare che lo scrittore ebreo Elie Wiesel, Nobel della pace nel 1986, in un suo testo sulla mistica del giudaismo dei Chassidim mitteleuropei intitolato Contro la malinconia, ricordava che per quel movimento spirituale essa aveva una dimensione religiosa perché era alimentata dall’anelito alla venuta del Messia che ancora non si profilava all’orizzonte.

Nella Bibbia non esiste un vocabolo specifico per designarla, ma si usa ka‘as che indica pena, tensione, afflizione, in greco lýpê, come, ad esempio, Qohelet suggerisce al giovane: «Caccia la malinconia dal tuo cuore» (11,10). E riconosce che la malinconia-sofferenza è uno stato proprio delle persone profonde e sagge: «Molta sapienza, molto ka’as. Chi più sa, più soffre» (1,18). Tuttavia esiste anche – come insegnavano gli antichi maestri spirituali – l’akedía o acedia, che non è la nostra accidia oziosa; ne può essere però una ramificazione, ed è la spossatezza malinconica inerte che si avviluppa attorno all’anima, come il calore snervante del pomeriggio estivo si avvinghia al corpo.