Paolo, l’interprete di Gesù

da Il Sole 24 Ore – 25 giugno 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il cardinal Ravasi racconta il saggio di Daniel Marguerat nel quale l’autore ripercorre la biografia di San Paolo affrontando il suo percorso di teologo-pastore.

Dal 21 al 23 aprile scorso si è svolto a Parigi il Festival del Libro con oltre centomila visitatori e – per una nazione fieramente “laica” com’è la Francia – con la sorpresa di una nutrita presenza di testi religiosi. Tra questi vorremmo segnalare, edito da Seuil, il saggio suggestivo già nel titolo, Paul de Tarse. L’enfant terrible du christianisme, di uno dei maggiori neotestamentaristi, lo svizzero protestante Daniel Marguerat (1943), docente a lungo all’università di Losanna. In attesa che la sua opera venga tradotta anche in italiano, abbiamo seguito la lunga intervista che egli ha rilasciato al quotidiano cattolico francese «La Croix» nella quale delinea i percorsi e gli scogli che ha dovuto affrontare per riuscire a comporre una biografia paolina, capace però di tener conto della maggiore identità dell’Apostolo, quella di teologo-pastore.

Si tratta di un’impresa ardua che è stata tentata – in modo rigoroso e non meramente agiografico – nel 1996 da un altro gigante dell’esegesi biblica, il dublinese (ma gerosolimitano d’adozione) Jerome Murphy O’Connor (1935-2013), docente alla prestigiosa École Biblique et Archéologique domenicana di Gerusalemme. Quello studio monumentale fu tradotto nel 2003 dalla sempre raffinata editrice Paideia, ora inglobata dalla torinese Claudiana: il titolo – anche in questo caso, almeno nell’originale – era netto Paul. A Critical Life (in traduzione, semplicemente Vita di Paolo, con una biografia allegata di oltre trenta pagine!).

Marguerat vuole, invece, puntare a un orizzonte di lettori più vasto e in quell’intervista anticipava alcuni snodi capitali. Lasciamo a lui la parola: «Paolo è il primo a condurre in modo sistematico una missione cristiana rivolta a non-ebrei, senza che essi dovessero essere integrati nel giudaismo. Inoltre, egli si è confrontato con problemi inediti, come è testimoniato dalla Prima Lettera ai Corinzi. Gesù non ha scritto nulla, né ha organizzato una comunità dopo di sé… L’identità del cristianesimo non sarebbe quella che è senza l’Apostolo, il primo a riformulare la parola di Gesù nella cultura del mondo greco-romano aprendo il cristianesimo all’universalismo».

A questo punto si dovrebbe forse avallare per Paolo l’ormai abusata definizione di «vero» o almeno «secondo fondatore del cristianesimo», coniata già nel 1904 dal tedesco Wilhelm Wrede o, più brutalmente, quella di Gramsci che lo classificava come il «Lenin del cristianesimo»? Marguerat è molto più cauto: «Paolo è stato fedele a Gesù interpretando il suo progetto in una cultura e condizioni differenti. Egli è, dunque, il suo interprete, forse il migliore», naturalmente adottando il filtro ermeneutico dell’evento pasquale, ossia della risurrezione di Cristo e della sua nuova presenza metastorica. È significativo l’approccio smitizzante operato da Marguerat nel suo saggio rispetto ad alcuni stereotipi classici di un Paolo «dottrinario, collerico, antifemminista e antigiudaico».

Qui entra in scena una questione storico-critica rilevante: non tutto l’epistolario di 13 lettere che è posto sotto il suo patronato è direttamente riconducibile a lui, perché – secondo l’opinione dominante – alcune (fino a sei, per molti esegeti) sono deuteropaoline, cioè da riportare alla sua scuola o tradizione. Ed è in esse che si configurerebbero maggiormente quegli stereotipi. Non c’è, però, nessun dubbio sulla Lettera ai Romani, il suo capolavoro teologico fatto di 7.094 parole greche, una sorta di nuovo mini-vangelo, se si pensa che quello di Marco ne assomma 11.229. È proprio a quest’opera, che «ha scandito le grandi ore della storia della Chiesa», come scriveva un commentatore luterano (è una connotazione facilmente comprensibile), Paul Althaus.

A margine ricordiamo che, la citata Paideia traduce ora il primo tomo di un nuovo commento elaborato da uno studioso canadese di Toronto, Richard N. Longenecker. Di scena sono i primi quattro capitoli della Lettera, anche se è offerto nell’introduzione di oltre cento pagine un profilo globale dello scritto paolino con tutti i punti fermi interpretativi ormai acquisiti e le questioni ancora controverse. L’approccio imboccato dall’autore rivela alcune peculiarità: l’analisi accurata delle strutture compositive letterarie, rilevanti per la stessa ermeneutica dell’opera paolina; la filigrana delle citazioni e allusioni bibliche; il ricorso a materiali tradizionali cristiani prepaolini, sia giudaici, sia giudeo-cristiani; la struttura narrativa globale e i rimandi ai vari contesti entro cui è incastonata la Lettera.

Si ha, così, un bilanciamento tra le acquisizioni dell’esegesi che finora si è non solo impegnata ma persino accanita attorno ai 16 capitoli in cui lo scritto paolino è stato articolato, e le nuove proposte o rielaborazioni di Longenecker. E, come spesso accade, nonostante l’esegesi italiana riveli ormai un’alta qualità, il mondo anglosassone la ignora anche nella mera bibliografia: vorrei soltanto segnalare l’assenza del grandioso commentario di Romano Penna (Dehoniane 2010, pagg. 1.331) e di quello originale, con uno sguardo anche al metodo retorico-letterario, di Antonio Pitta (Paoline 2001, pagg. 630).