Mangiare come Dio comanda

Quando i seguaci di Maometto gli chiedevano di definire la fede, egli rispondeva: “offrire cibo e dare il saluto della pace”.

Differentemente da quanto si possa pensare, gran parte delle nostre cucine deriva dall’incontro e dallo scontro delle tre grandi religioni monoteiste; la Sura quinta del Corano divide i cibi in due categorie: quelli permessi, detti halal e quelli proibiti, detti haram, cioè impuri.

Le carni bovine e ovine sono consentite, purché macellate ritualmente per eliminare il sangue, mentre sono vietati molluschi e crostacei; la lista dei cibi interdetti si apre con il maiale, per poi proseguire con il cane e il coniglio senza dimenticare il vino e le bevande inebrianti.

Gran parte delle interdizioni coraniche somigliano a quelle ebraiche e sono alla base di molti piatti della gastronomia globale come il kebab, il cuscus, lo zimino, l’hummus, il dolma, il falafel e la moussaka; attraverso la penetrazione arabo-berbera, l’influenza islamica ha investito anche molte specialità italiane e spagnole: i fardelejos ispanici, gli sfinci sicialini, i cannoli e i mandorlati.

Nei Vangeli non c’è traccia di cibi proibiti perché «del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene» (Sal. 24, 1); nella prima lettera di San Paolo ai Corinzi si dice infatti che ogni specie animale o vegetale può essere consumata senza problemi e l’unico precetto cristiano è la temperanza.

Le cucine, come le religioni, del Mediterraneo e d’Europa, si sono costruite l’una sull’altra e l’una dopo l’altra; la dieta mediterranea è stata inventata dagli dèi che hanno poi donato agli uomini pane, olio e vino.

Gli antichi greci definivano gli uomini “mangiatori di pane”, quasi a sottolineare come i popoli al di fuori di questa categoria potessero considerarsi non umani; i cereali erano considerati un dono di Demetra, la madre terra, l’olivo era considerato un’invenzione geniale di Atena, dea della “democrazia” e infine il vino era considerato regalo di Dioniso, dio del fermento vitale e dell’ebbrezza.

Quando il Cristianesimo diventò la nuova religione del bacino, trasformò la triade nella materia del sacramento eucaristico: pane e vino divennero corpo e sangue del Dio incarnato mentre l’olio fu considerato lo strumento del suo passaggio divino; infatti, Cristo in greco significa “l’Unto”, così come l’ebraico Messia.

Nelle diverse confessioni, la disciplina del corpo e dell’anima si riflette nei digiuni e nelle astinenze che rientrano nella pratica devota: dallo Yom kippur ebraico al Ramadan islamico, passando per quello dei cristiani copti d’Egitto fino ad arrivare alle rinunce dell’anno induista.

Nella religione induista, la rinuncia al cibo purifica il corpo per elevare l’anima; la parola “upvas” che indica il digiuno significa letteralmente “sedere vicino a Dio”.

Per il dio Shiva, si sta a digiuno fino a lunedì; per il dio Hanuman, il martedì; il mercoledì si rinuncia al cibo per Ganesh e il giovedì si sta a dieta per Vishnu; il venerdì non si mangia per Shakti e per Kali, la sanguinaria Signora dalle otto braccia; il sabato si prosegue con il digiuno per Shani mentre la domenica è considerato giorno sacro per Surya, il sole.

Oggi, anche se “non c’è più religione”, ascetismi e astinenze ritornano nelle parossistiche diete a cui ci sottoponiamo senza sosta; siamo diventati, così, ostaggio della bilancia anziché della nostra coscienza e il cibo, anziché palliativo per l’anima, è diventato presto misura della nostra credibilità agli occhi del mondo. Forse dovremmo ritornare alle religioni. E a mangiare, come Dio comanda.

 

Ylenia Romanazzi

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