Luigi Gonzaga in punta di penna

da Il Sole 24 Ore – 20 novembre 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi analizza la figura di Luigi Gonzaga.

È un nome che portano tanti nostri lettori e lettrici, anche perché con «Giuseppe» è ancora uno dei più diffusi in Italia: Luigi, con tutte le sue variazioni (Luisa, Luisella, Luigino, Gigi e così via). Fu assunto da varie dinastie in Baviera (Wittelsbach), in Ungheria, Portogallo e soprattutto in Francia ove si elencano ben 18 re col glorioso XIV, il re Sole, col misero XVI ghigliottinato dalla Rivoluzione francese, e persino con un santo, il IX (1214-1270), al quale è intitolata la chiesa nazionale di Roma, celebre per le sue tre tele di Caravaggio dedicate all’apostolo ed evangelista Matteo.

Ma il Luigi che aleggia su tutti i suoi omonimi attuali è ovviamente san Luigi Gonzaga, nato il 9 marzo 1568 alle 23.45 a Castiglione delle Stiviere (Mantova), con un parto difficile tanto da essere battezzato subito dalla levatrice col nome latinizzante di Aluigi (Aloysius), derivato da Lodovico. Il padre era il marchese Ferrante che aveva sposato nel 1566 in Spagna la dama di corte Marta, la preferita della regina Isabella di Valois. Non vogliamo tracciare ora la biografia brevissima ma intensa del loro figlio perché – soprattutto coloro che ne recano il nome – potranno seguirne la trama nell’ampia introduzione alla riedizione delle sue Lettere e scritti a cura di un gesuita, Gualberto Giachi.

Sì, perché, tra le urla del padre (poi rassegnato) e lo sconcerto della famiglia, Luigi aveva rinunciato al titolo di marchese per essere ammesso proprio nella Compagnia di Gesù nel 1585, a 17 anni. Il veloce filmato della sua vita si concluderà alle 23 di venerdì 21 giugno 1591 quando Luigi, contagiato dagli appestati che egli curava con amore, si spegnerà ventitreenne a Roma, reggendo il crocifisso in una mano e una candela accesa nell’altra. Canonizzato nel 1726 da papa Benedetto XIII Orsini che lo additò a patrono degli studenti, dal 1699 riposa in un’urna di lapislazzuli nella chiesa barocca romana di S. Ignazio, nel transetto destro, sotto un sontuoso altare disegnato da Andrea Pozzo.

Il giorno della sua morte, secondo la tradizione cristiana, è la sua festa liturgica, celebrata da tutti coloro che ne recano il nome. Ma, oltre a conoscere la sua straordinaria e fulminea vicenda terrena, è interessante sfogliare gli scritti aloisiani, costituiti da un epistolario, che parte dal 1578 e approda alle soglie della morte, e da altri testi e alcuni appunti spirituali che rispecchiano quel testo capitale della spiritualità gesuita rappresentato dagli Esercizi Spirituali di s. Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. La prima lettera dell’aprile 1578 è un biglietto che il decenne Luigi indirizza all’«Ill.mo Sig. Padre» Ferrante, allora tormentato dalla gotta. Il contenuto, però, è tutto assorbito dalla descrizione minuziosa del funerale della granduchessa Giovanna d’Austria a Firenze ove risiedeva, «esequie bellissime che durarono per lo spazio di tre ore».

L’ultima lettera è, invece, vergata dieci giorni prima della morte, il 10 giugno 1591, ed è rivolta all’«Ill. Sig. Madre in Cristo Osserv.», in risposta a uno scritto della stessa marchesa, pervenuto mentre egli era ancora «vivo in questa regione de’ morti, ma sù sù per andare a lodare Dio per sempre nella terra de’ viventi». Subito dopo queste righe filigranate di espressioni bibliche, Luigi confessa alla mamma di aver «pensato d’aver già varcato questo passo: ma la violenza della febbre nel maggior corso e fervore rallentò un poco, e mi ha condotto fino al giorno glorioso dell’Ascensione». È emozionante leggere il resto delle righe, tutte segnate da un’impressionante serenità e fiducia in Dio. Anzi, in finale chiede che la sua dipartita sia considerata dai suoi familiari come «un caro dono» e implora la madre perché «con la sua materna benedittione mi accompagni et aiuti a passare questo golfo, et giungere a riva di tutte le mie speranze».

Interessanti sono anche gli altri scritti aloisiani. Come si diceva, alcuni sono appunti ascetici, composti durante gli Esercizi spirituali annuali. Più ampio e articolato è, invece, il Trattato o meditazione degli Angeli, particolarmente degli Angeli custodi, destinato alla stampa (siamo nel 1589). Naturalmente a dominare è l’aspetto esemplare per cui gli spiriti angelici sono emblemi di umiltà, carità, purezza e soprattutto di «amore intero per Dio e per il prossimo», sulla scia della dottrina spirituale tradizionale, alimentata anche dal messaggio biblico (ad esempio, la figura dell’angelo Raffaele nella storia di Tobia). Curiosa, però, è un’evocazione finale classica: «Seneca filosofo gentile [pagano], scrivendo ad un amico suo, gl’insegna, che per stare sopra di sé nelle azioni e parole sue, s’immagini sempre di avere appresso di sé Catone come suo severo censore».

Concludiamo con una chicca, il discorso latino (tradotto in italiano) che il quindicenne Luigi tenne davanti a Filippo II, appena incoronato anche re del Portogallo, segno del prestigio che godeva alla corte di Spagna il padre Ferrante, «cameriere d’onore e capitano di gente d’arme». Anche in questo caso, affiora la formazione classica del ragazzo Gonzaga che, in apertura, evoca «quel Demostene, al cui solo nome (per usare le parole di Valerio Massimo) viene in mente l’idea della perfetta eloquenza», avendo costui tenuto un discorso a Filippo, padre di Alessandro Magno e re di Macedonia; mentre, subito dopo, non può mancare Cicerone, «fonte di eloquenza e di splendore della latina letteratura».