22 Gen Le emozioni profonde abitate da Dio
Il Dio delle Scritture ebraico-cristiane è palesemente «patetico», nel senso che è percorso nel suo essere e nel suo agire da un pathos profondo e fin sconcertante, a differenza dell’algido Motore Immobile divino aristotelico. Le sue emozioni registrano la gamma intera delle reazioni, dal gelido violetto della collera (per altro espressa in ebraico con un termine onomatopeico connesso allo «sbuffare» del naso, ’af) fino al rosso ardente della compassione viscerale (formulata col vocabolo che designa il grembo materno, rahamîm).
Certo, si cerca già di demitizzare questi profili tipici dell’antropomorfismo, come in un passo del libro dei Numeri: «Dio non è un uomo perché mentisca, non è un figlio dell’uomo perché ritratti. Forse che egli dice e non fa? Parla e non realizza?» (23,19). Eppure, in altri passi biblici gli accade di «pentirsi» e cambiare giudizio e persino di rendere incomprensibili alcune sue reazioni. È naturale che, abbandonando le spoglie del letteralismo fondamentalista, è necessario imbracciare uno strumento ermeneutico corretto. Esso farà evitare la razionalizzazione che ricompone un volto frigido e distante di Dio, oppure l’antipodo sia della divinità implacabile oppressiva cara a una certa predicazione della paura, sia di una visione così tollerante da risultare quasi amorale.
Rimane, comunque, il quesito di fondo: in che misura una definizione delle emozioni umane può prestarsi a una trasposizione divina pertinente? Teniamo conto, infatti, che si è da tempo – soprattutto con l’irrompere della psicologia e della psicoanalisi – abbandonato il sospetto di puro e semplice irrazionalismo, assegnato alle emozioni, che si rivelano invece canali ulteriori di conoscenza, intelligenza e creatività. Rimane, comunque, aperto l’interrogativo di base che un’interpretazione autentica deve raccogliere: il Dio emotivo biblico (ma non solo) è semplicemente una proiezione ipertrofizzata dell’umano? Al quesito risponde con un’ampia argomentazione il teologo francese, Emmanuel Durand, classe 1972, docente all’università di Friburgo in Svizzera.
Egli è consapevole della delicatezza della questione perché «il passaggio dal mitico al razionale è disseminato di insidie. L’impresa occorre tentarla, ma è oneroso farlo lucidamente sul piano intellettuale». Il percorso proposto è molto ramificato e deve necessariamente attingere a un’attrezzatura dalle molteplici qualità che rivelano diversi approcci, esegetici, letterari, filosofici, teologici, psicologici, in pagine intarsiate di rimandi suggestivi. Tanto per esemplificare, pensiamo ad Agostino che si confronta con le teorie stoiche, oppure alla tavola analitica delle passioni approntata da Tommaso d’Aquino, ma anche all’inevitabile Cartesio e ad altri vari interlocutori privilegiati. Tra questi non può essere escluso il dialogo con Sartre e il suo Esquisse d’une théorie des emotions (1939; tradotto nel 1974 da Bompiani all’intero delle Opere del filosofo) che aveva rimesso in discussione «una certa ingenuità epistemologica della psicologia sperimentale».
Nella sede più specifica dell’ermeneutica biblica tra i molti spunti offerti da Durand vorremmo segnalare una sola trilogia di approcci. Il primo è quello letterario del ricorso alla metafora, più che alla tradizionale «analogia», sulla scia della nota riflessione di Paul Ricoeur. Essa permette di trapassare dalla sua primaria appartenenza alla retorica verso la semantica, secondo «una traslazione di senso fondata su un’affinità creativa fra termini a prima vista disparati». Una seconda componente è, invece, di natura squisitamente teologica e tipicamente cristiana: è l’Incarnazione, cuore della fede cristologica. Le emozioni umane sono assunte realmente dal Figlio di Dio nella sua carne e creano perciò un’interazione/intersezione tra umanità e divinità.
Il terzo approccio regge il corpus stesso dell’opera del teologo francese: dopo aver delineato nelle due precedenti componenti l’epistemologia adottata, si tracciano in un quadro molto vivace le principali nervature emotive divine. Si parte con la passione d’amore nelle sue variazioni coniugale e genitoriale, scandite dall’eros e dall’agape. Si procede, poi, nel terreno pianeggiante ma accidentato delle «passioni convenienti e sconvenienti» a un Dio che sono però registrate nelle Scritture. Entrano, così, in azione l’ira di Dio, che talora ha come corollario un paradossale pentimento, e la tristezza espressa nella sua lamentazione che si alimenta a una vulnerabilità e sensibilità nei confronti del rifiuto umano e nel conseguente deturpamento della creatura attraverso il peccato.
Queste e altre emozioni hanno in Gesù Cristo la loro epifania più esplicita. Si ritorna, così, al superamento del Dio immutabile e immobile nella sua trascendenza dorata, celebrato da una certa teologia classica. Mirabile è ancora una volta Dante nel non rinunciare a questa trascendenza, incrociandola però con l’immanenza emotiva. Nella professione di fede da lui emessa davanti a san Pietro si proclama l’unione della perfetta eternità divina con l’amore e il desiderio: «Io credo in uno Dio / solo ed etterno, che tutto ‘l ciel move, / non moto, con amore e con disio» (Paradiso XIV, 130-132).