L’Apocalisse si fa largo tra il dolore

da Il Sole 24 Ore – 27 agosto 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi racconta le opere di Carlo Emilio Gadda in cui affiorano simboli e figure bibliche ed una particolare attenzione per i Vangeli sinottici.

C’è persino un Gaddabolario, allestito da Paola Italia (Carocci), che censisce e commenta ben 219 termini coniati dall’autore-ingegnere, costruttore di un ormai famoso lessico personale, frutto di una mistura di vocaboli aulici e dialettali, tecnici e gergali, ritoccati e intrecciati con lingue disparate, dal greco e latino classico al romanesco, dal francese al veneto, dall’inglese e dall’ispanico al napoletano e così via. Qui, però, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, avvenuta a Roma il 21 maggio 1973, poco prima dei suoi ottant’anni, vorremmo interessarci di un aspetto a prima vista alieno a Carlo Emilio Gadda, ossia il suo rapporto con la religione.

Fulminante, invece, era stato il suo sguardo sulla società borghese, sugli arricchiti, sullo squallido rapporto «erotico» tra Mussolini e il popolo italiano, icasticamente raffigurato nel romanzo Eros e Priapo (concepito nel 1944-45, ma edito solo nel 1967). Eppure in molte sue opere affiorano simboli e figure bibliche, soprattutto i segni fiammeggianti dell’Apocalisse. In un articolo apparso su «Nuova Antologia» del 1940 egli non esitava a celebrare i Vangeli, «particolarmente i sinottici, nella divina limpidezza della parabola: essi ci riportano alla verità del mondo morale, quasi incedendo verso la luce, sempre!». E in uno dei racconti di Accoppiamenti giudiziosi (1963) esaltava «la voce della Bibbia, il più grande libro che sia mai stato scritto».

Le sue pagine, allora, sono non di rado attraversate da una filigrana che rivela la sua lettura del «gran libro», dall’Eden iniziale col serpente tentatore e col seguito sanguinoso di Caino e Abele e la prevaricazione di Babele, fino ai sigilli e alle catastrofi apocalittiche. Queste ultime diventano per Gadda lo strumento simbolico per colpire il fascismo e il suo capo, «la belva imperiale e la sua laida cavalcatura». Ecco un curioso esempio di citazione dell’Apocalisse giovannea (17,3-6) intervallata da glosse parentetiche applicative: «Un angelo mi portò in un deserto (nel deserto mortale dei popoli assassinati) e mi fece vedere la bestia scarlatta con sette teste e dieci corna coperte di nomi di bestemmie (i miti falsi) … Sulla sua ferita, ecco l’iscrizione misteriosa: Babilonia la grande, Madre di tutte le prostituzioni. Ella era ebbra del sangue dei martiri».

Non manca, però, il rimando alla figura di Cristo le cui parole sono spesso citate nelle varie opere gaddiane, talora anche nel latino ecclesiastico, come il Sinite parvulos venire ad me, un appello «detto dal primo socialista del mondo» (così nel primo romanzo La meccanica, 1970). Uno dei libri di Gadda che nel mio lontano passato di lettore più mi colpì fu La cognizione del dolore (1970). A fare da traino era stata già l’ambientazione in una fantasiosa Brianza, che era la mia terra d’origine, miscelata però con figure e paesaggi sudamericani, come lo era il protagonista don Gonzalo, in battibecco permanente con la madre che verrà assassinata forse da emissari di un Istituto di Sorveglianza Notturna, allegoria del fascismo. È da quella morte crudele che in don Gonzalo si ramifica la mano gelida del rimorso e del senso di colpa che lo fa progressivamente sentire forse come matricida ma che alla fine riesce a redimerlo.

La fluidità della trama, tipica dello stile di Gadda, rendeva allora per me arduo decifrarne l’aspetto morale-religioso. Fu un saggio, di difficile reperibilità, che scoprii quando dirigevo la Biblioteca Ambrosiana, a illuminare una sorta di palinsesto teologico in quell’opera. Si trattava dell’analisi del romanzo condotta da Rinaldo Rinaldi in La paralisi e lo spostamento (Bastogi, Livorno 1977) che giungeva a questo esito inatteso: «Un fitto reticolo di suggestioni evangeliche fa veramente sistema, tanto da parlare di struttura cristologica del romanzo». Anzi, secondo quel critico, era la stessa vicenda di Cristo a reggere il profilo di don Gonzalo, sia pure per paradosso, e a divenire «l’architettura di sostegno dell’intera seconda parte».

Rinaldi adottava un’ermeneutica di taglio junghiano e tracciava una mappa non solo degli espliciti rimandi evangelici ma anche delle equivalenze tra i vari attori e alcuni personaggi evangelici. Non è possibile in queste poche righe delineare quel programma di calchi tra don Gonzalo, suo padre, sua madre, i cugini, la plebe, l’Istituto di Sorveglianza, da un lato, e analoghe figure evangeliche fino allo stesso Satana e soprattutto alla catarsi finale, dall’altro. Scriveva Rinaldi, ammiccando alla strumentazione interpretativa psicanalitica sopra evocata: «Alla figura di Gonzalo si sovrappone quella di Cristo, del Figlio che non solo con la sua natura divina rappresenta il simbolo della totalità psichica…, ma che proprio con la sofferenza della Passione costituisce il modello del doloroso processo di individuazione, del viaggio di saggezza che arriva alla rinascita attraverso la morte».

Comunque sia, sta di fatto che l’approdo terminale della vicenda di don Gonzalo ha un rimando al Consummatum est del Cristo crocifisso. Scrive, infatti, Gadda. «Tutto doveva continuare a svolgersi, e adempiersi: tutte le opere. E l’ora da una torre lontana sembrò significare: “Gli atti sono tutti adempiuti”». Certamente, il frenetico cambio di registro dal realistico al grottesco, dal lirico al drammatico, dal comico al tragico trasforma ogni interpretazione delle pagine gaddiane in una sfida. Tuttavia è difficile – anche a causa della stessa biografia dello scrittore – ignorare i fremiti morali e spirituali di tante sue righe.