La nostra generazione e la coscienza del limite

Il brutale omicidio del professor Paty, avvenuto lo scorso ottobre in Francia per mano di un fanatico musulmano, ha avuto un enorme impatto sull’opinione pubblica occidentale e ha generato molte riflessioni. Una di queste ha avuto luogo a casa mia. Lo spunto tristemente offerto dalla vicenda, infatti, mi ha permesso di discutere con mia madre riguardo alle vignette pubblicate sulla rivista satirica Charlie Hebdo e a tutto ciò che ne è seguito. In questo frangente, ho avvertito chiaramente la distanza generazionale che c’è fra noi due.

Se la generazione di mia madre ha vinto la grande battaglia per la libertà d’espressione per ciascun individuo, la nostra, per quanto paradossale possa sembrare, ne sta imparando a conoscere le contraddizioni e sente il bisogno di imporsi dei limiti.

Ciò avviene, ad esempio, in campo linguistico, nella ricerca di un vocabolario adeguato alla realtà che ci circonda, di un lessico prudente nel toccare gli equilibri di una società tanto complessa quanto sensibile. La selezione di termini appropriati è, pertanto, una caratteristica imprescindibile del nostro linguaggio; così, è divenuto (o sta diventando) naturale riferirsi a categorie sociali storicamente deboli, quali gli omosessuali o le persone di colore, senza ricorrere ad epiteti ingiuriosi o volgari.

Ma la riflessione linguistica è stata accompagnata da quella storica. Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo assistito all’abbattimento di statue di epoca coloniale raffiguranti politici e conquistatori. Questa damnatio memoriae riflette l’imbarazzo e talvolta persino il disprezzo che la nostra generazione prova nei confronti di un passato che vogliamo dimenticare; di più, presuppone la scelta condivisa di ciò che è giusto dire, fare e celebrare.

A queste due grandi riflessioni mi sembra che non se ne sia aggiunta una terza altrettanto meritevole di attenzione: quella religiosa. La società laica e secolarizzata in cui viviamo si è talmente disabituata alla sensibilità religiosa da pretendere di applicare i suoi schemi (culturali, linguistici) in ambienti ancora profondamente diversi dal nostro, compreso quello islamico. Guardare a questi mondi attraverso le lenti del nostro contesto storico, politico e sociale non è forse sintomo del senso di superiorità che ancora proviamo? Perché riteniamo necessario anteporre il rispetto della sensibilità dell’altro al nostro costume linguistico o alla nostra memoria storica, e quando ad essere urtato è il sentimento religioso di una comunità, ci barrichiamo dietro la libertà d’espressione?

Forse potremmo chiederci se esiste un punto oltre il quale la nostra autonomia cede il passo ad altri diritti, e se oltrepassare tale punto non sia soltanto sconveniente, ma inutilmente offensivo.

La generazione di mia madre ci ha insegnato a lottare per veder riconosciuti i nostri diritti, donandoci un’epoca di libertà senza eguali nella storia. La nostra avrà il compito di riconoscere il limite di queste libertà e di scegliere fin dove possono spingersi, lavorando in ogni contesto per un riconoscimento di diritti ancor più equilibrato.

Giorgio Forti