La Bibbia vista da Calvino

da Il Sole 24 Ore – 19 marzo 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi illustra come Italo Calvino sia rimasto colpito dal testo Sacro e di come lo considerasse una sorta di grande biblioteca di opere singole da considerare nella loro globalità.

Tempo fa, sfogliando la raccolta mondadoriana dei Saggi (1945-1985) di Italo Calvino, mi sono imbattuto in un testo autobiografico del 1960, intitolato Un’infanzia sotto il fascismo, e in un paragrafo ho scoperto una sorta di ritratto di famiglia. Entrambi i genitori erano liberi pensatori: il padre sanremese, educato in un ambito mazziniano anticlerical-massonico, da anarchico era divenuto socialista riformista; la madre, sarda, «laica» e pacifista, era stata allevata nel culto della scienza. Si erano, così, premurati che il loro figlio Italo fosse esonerato dall’insegnamento religioso e da ogni liturgia cattolica, iscrivendolo a una scuola elementare valdese, prima, e a un collegio inglese, poi.

Con questa premessa, è facile riconoscere quanto sia interessante ricostruire la sua intensa visione etica generale, ma anche comprendere quanto sia arduo isolare un profilo «religioso» di Calvino, accanto ai tanti suoi ritratti che in questo centenario della sua nascita cubana sono stati abbozzati, nelle stesse pagine del nostro supplemento. Una via più concreta potrebbe essere quella di identificare gli ammiccamenti, le allusioni o i rimandi a quel «grande codice» della cultura occidentale che è la Bibbia. Questa formula, come è noto, è il titolo di un saggio del critico canadese Northrop Frye, che è stato l’autore anche di un’Anatomia della critica (1957), letta con partecipazione e persino con un’interlocuzione dialogica da Calvino.

Ed è proprio in questo confronto, cristallizzato nell’articolo La letteratura come proiezione del desiderio (1969), che lo scrittore definisce la Bibbia non tanto simile a un «libro archetipico» (così Frye), ma come una biblioteca, cioè una raccolta di opere messe l’una accanto all’altra alle quali si dà un particolare valore globale e attorno alle quali si ordinano tutti gli altri libri possibili. Oltre ai 73 libri in questione (almeno nel Canone biblico cattolico), Calvino non poteva non essere attratto anche da quella regione letterario-teologica lussureggiante rappresentata dagli apocrifi, segni di una creatività che è stata incessante anche dopo i primi secoli cristiani e che ha raggiunto gli stessi nostri tempi (Borges insegna…).

Non siamo ovviamente in grado di sottoporre a radiografia i romanzi e gli altri scritti calviniani alla ricerca di un palinsesto biblico. Un’operazione di questo taglio, sia pure nel perimetro ristretto di una voce di dizionario, è stata condotta da Davide Savio: è questa l’occasione per raccomandare nuovamente – dopo una nostra recensione apparsa in queste pagine nel 2018 – il Dizionario biblico della letteratura italiana, diretto da Marco Ballarini per l’editrice milanese ITL. Ora, Savio riconosce nel libro della Genesi una filigrana, sia pure esile, alcuni scritti di Calvino, a partire dall’«Eden arboricolo» del Barone rampante.

Per ritrovare, però, uno sfondo spirituale cristiano meno etereo, anzi, corposo e corporale, penso – concordando con Savio – che sia rilevante la Giornata di uno scrutatore del 1963. La vicenda è nota: un cittadino di estrazione comunista, tale Amerigo Ormea, è incaricato di espletare questa funzione connessa alle elezioni politiche nel seggio di una sede molto particolare, quella dell’istituto Cottolengo di Torino, un mondo di «minorati», «deboli», «deficienti» piuttosto ripugnante al personaggio che fa professione di essere razionalista. Progressivamente, però, quel contatto penetra oltre la sua corazza di autodifesa e il racconto si trasforma in una storia di catarsi e di metamorfosi spirituale.

Se è abbastanza naturale l’occhieggiare della figura di Giobbe che è il referente tradizionale sul tema, più decisiva e incisiva è l’entrata in scena del Discorso della Montagna, aperto da Cristo con la sequenza delle Beatitudini, la prima delle quali suona: «Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli». L’incontro con quell’umanità dolente, celebrata da Gesù in tal modo, qualunque sia l’interpretazione della frase, fa sì che Ormea senta vibrare dentro di sé un sentimento cristiano radicale, quello dell’amore che non conosce confini né ripulse, come attestano coloro che operano al Cottolengo, a prima vista attori sconcertanti nella loro carità agli occhi del freddo scrutatore di schede elettorali.

Il paradosso è proprio celato in quella «ultima città dell’imperfezione» che ha però una sua sorprendente «ora perfetta». Essa lietamente si svela a Ormea e rende quella cittadella di poveri e miseri la Città più alta e ideale. Significativa è una frase di quel testo calviniano, opera importante perché segna anche un trapasso nella biografia stessa dello scrittore, che sta lasciando alle spalle il suo impegno politico gradualmente per una nuova stagione di attività sociale e letteraria: «L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». Siamo ormai nel territorio evangelico ove lo stesso precetto dell’«Ama il prossimo come te stesso» è travalicato dalla nuova radicale declinazione operata da Cristo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per la persona che si ama» (Giovanni 15,13).

Una curiosa nota a margine. Mario Barenghi, che è stato uno dei curatori dei Meridiani calviniani Mondadori, nel suo saggio su Calvino pubblicato nel 2009 dal Mulino, segnalava un probabile sottinteso cristiano nel cognome stesso dello scrutatore: Ormea è l’anagramma di «Amore»!

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