Il riformatore al fianco delle donne

da Il Sole 24 Ore – 19 novembre 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi ricorda la figura di Jan Hus, il teologo e riformatore boemo che arrivato nella Boemia meridionale a seguito del suo esilio, decise di rivolgere la sua parola ad un pubblico esclusivamente femminile.

Era il 6 luglio 1415. A Costanza, la città tedesca che si affaccia sull’omonimo lago, si stava celebrando un concilio voluto soprattutto dall’imperatore Sigismondo e dall’antipapa Giovanni XXIII, il napoletano Baldassare Cossa. Si era giunti alla XV sessione che aveva deciso di dichiarare colpevole di eresia una figura di rilievo nella vita ecclesiale di allora, il boemo Jan Hus, nato attorno al 1370-1372. Spogliato dalle vesti sacerdotali, rivestito col cappello conico degli eretici, fu avviato dalla cattedrale alla pubblica piazza ove si era già attrezzata la pira del rogo.

Invitato invano a rinnegare la sua dottrina, denudato, aveva ancora una volta proclamato la sua innocenza teologica: «Dio mi è testimone che non ho mai insegnato quello di cui mi incolpavano falsi testimoni. Morirò con gioia per la verità del Vangelo che ho predicato e insegnato». Le fiamme lo avvolsero; le sue ceneri vennero sparse sul Reno. Nella sua breve esistenza, anche sotto l’influsso di un altro riformatore radicale, l’inglese John Wyclif, Hus era stato un predicatore acclamato che usava la lingua ceca e che sferzava senza timori la corruzione e la mondanità dell’istituzione ecclesiastica, invocando un’autentica conversione al Vangelo sul modello del Cristo umile e povero. La cristianità europea stava vivendo una grave crisi con due obbedienze papali, l’avignonese e la romana, alla quale avrebbe dovuto porre rimedio proprio il concilio di Costanza. La voce forte e chiara di Hus, nonostante tutte le censure e la scomunica a cui fu sottoposto, da Praga si stava allargando, fino a essere una spina nel fianco di strutture e interessi codificati. La sua ansia per la rigenerazione della spiritualità cristiana aveva come centro la verità di Dio e della morale che ha nella parola di Cristo la sua sorgente. La mediazione dell’autorità è importante, ma non è l’ultimo tribunale che è, invece, rappresentato dalla Bibbia e dalla conoscenza.

Per approfondire meglio il pensiero del riformatore martire, naturalmente caro alla successiva irruzione del protestantesimo che tradurrà gli scritti hussiani con l’appoggio entusiastico di Lutero, è a disposizione ora un testo molto originale. L’hanno approntato un noto storico, Stefano Cavallotto, e una storica della filosofia Anežka Žáková, ed è la prima versione italiana dal ceco di un trattato i cui dieci capitoli sono tutti scanditi da un appello iniziale di matrice biblica: «Ascolta, figliola, guarda e porgi l’orecchio» (il titolo principale in ceco è Dcerka, «Figliola»). Siamo tra il 1412 e 1414 e il maestro predicatore Hus, già esiliato dalle autorità di Praga, si sposta di villaggio in villaggio nella Boemia meridionale e con la sua parola si rivolge a un pubblico esclusivamente femminile, con una scelta allora sorprendente.

Forse si trattava delle cosiddette «beghine», donne che vivevano in comunità dedite alla preghiera e alla carità, con una loro autonomia. I temi sono molteplici ma si compongono quasi in una sorta di antropologia alla luce della fede cristiana.

Centrale è sempre la funzione della coscienza che svela il male che si annida nel cuore umano. Scrivono i curatori: «Il messaggio sotteso a tutti i dieci capitoli è l’importanza della conoscenza di sé stessi ai fini della salvezza. L’essere umano ha in sé il ritratto del divino, uno specchio vivo del Signore all’interno della propria anima che, analogamente alla Trinità è suddivisa in tre parti – memoria, ragione e volontà – per mezzo delle quali ricordare Dio, conoscerlo e desiderarlo». A questo punto, un complemento ideale e suggestivo per conoscere il pensiero hussita – per altro splendidamente delineato nell’introduzione generale di questa edizione – è costituito dalle dieci lettere finali che «Maestro Jan Hus, debole sacerdote», come si firma, rivolge a diversi destinatari, a vari amici e discepoli, ai cittadini di Praga, ad alcune vergini che vivono in comunità e a «una nobile vedova contro la danza e i giochi».

Quest’ultima lettera, pur registrando l’atmosfera moralistica del tempo (ma si condanna anche il gioco d’azzardo che riduce in miseria i contadini), rivela la profonda sensibilità sociale del riformatore che proviene da umili origini. Egli denuncia persino la sorte delle donne sedotte o violate mostrando una premura sincera, anche se espressa con un linguaggio per noi un po’ imbarazzante: la figlia, la sorella, la sposa, la fanciulla «sono di gran lunga superiori, più preziose di tutte le capre, le mucche e i cavalli, o di qualunque bene, anche il più prezioso, che esiste al mondo».

La figura di Hus, impugnata in passato come vessillo nazionalistico e confessionale, è ora considerata anche in ambito cattolico secondo una ben diversa prospettiva. Infatti, al di là di certe riprese settoriali come quella della storiografia marxista, che la collocò nel quadro della «rivoluzione borghese», è significativa la voce autocritica di due pontefici, Giovanni Paolo II nel 1999 e papa Francesco nel 2015, che additarono il riformatore boemo come un appassionato cultore della purezza spirituale e umana della Chiesa, riconoscendo la colpa per la sua crudele e infame esecuzione capitale. La lettura di molte pagine di questo suo trattato «predicato» sarà l’attestazione più viva e trasparente del suo amore sincero per la verità, la moralità e soprattutto per Cristo e la sua parola.