Il conforto vicendevole tra fratelli

da Il Sole 24 Ore – 30 aprile 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi parla dell’esperienza dell’originaria e complessa dell’abbandono tramite le opere di Giovanni Cesare Pagazzi.

Il titolo era emblematico, Il trauma della nascita (1924), autore era lo psicanalista Otto Rank, un discepolo di Freud, dotato però di una sua originalità che si era rivelata proprio nell’oggetto di quel saggio. Esso puntava all’angoscia che avvolge inconsciamente il neonato dopo aver vissuto la traumatica separazione dal grembo materno alla nascita ed essere entrato in quell’oceano che è lo spazio e il tempo. Se si sfoglia qualche dizionario di psicologia come quello imponente di Umberto Galimberti, e si corre agli indici, si scopre subito che Rank è insediato nelle voci «angoscia, ansia, parto, separazione, trauma» e così via, proprio perché quell’evento archetipico è alla radice di varie esperienze di distacco, e spiega forse l’ardita definizione heideggeriana della persona umana come «un essere gettato».

Ebbene, nell’orizzonte simbolico radicale dell’abbandono, che ha rilevanze anche spirituali, si inoltra un teologo la cui ricerca segue percorsi ramificati che non esitano a trasbordare anche su altre vie. È Giovanni Cesare Pagazzi (1965) che è già stato ospitato in passato su questa nostra pagina per le sue originali letture di fenomeni e di dati antropologici capitali (l’ultima è stata dedicata al «sonno e la fede»). È curioso notare che il verbo biblico dell’abbandono è l’ebraico ? azab che rannoda in sé una semantica iridescente che, certo, rimanda alla lontananza, alla frattura dei legami, al neonato esposto, ma si allarga fino a definire il divorzio e persino l’aborto.

Ed è proprio dalle Scritture sacre che l’autore inizia il suo cammino attraverso una sequenza di passi destinati a gettare luce su questa «esperienza originaria e complessa». Solenne e caloroso è l’appello che Mosè rivolge all’Israele del deserto, tentato dalla disperazione: «Siate forti, fatevi animo, non temete e non spaventatevi, perché il Signore, tuo Dio, cammina con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà» (Deuteronomio 31, 6). Si è soliti dire che il computo delle varie formule bibliche «Non temere, non aver paura» e simili assomma a 365 presenze, un numero sicuramente casuale, ma che permette al lettore odierno di immaginare che sia questo il «Buongiorno» che ogni mattino Dio gli rivolge, così da esorcizzare ogni incubo o timore.

Sta di fatto, comunque, che spesso l’esperienza dell’isolamento fa rabbrividire l’esistenza e quel trauma della nascita e dello stesso svezzamento (col distacco dal seno della madre, fonte di nutrimento e di piacere per il bimbo) si carica di valori metaforici. Così, ad esempio, la Gerusalemme ripudiata da Dio e privata di figli si chiamerà «Abbandonata» (Isaia 62, 4) proprio perché lei stessa ha abbandonato il suo Signore. E, poi come ignorare quell’urlo lacerante di Cristo sul colle del Golgota: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ma a questo punto Pagazzi, seguendo una cifra che gli è propria, salta dal carro più agevole e a lui più consono della teologia per imbarcarsi in un’avventura nel mare non sempre in bonaccia della letteratura.

Sfilano, così, Beckett col suo Aspettando Godot ove si attende uno che non verrà mai; Camus con La peste, un crocevia obbligato per la fede; Green con Il potere e la gloria ove ci si interroga: «chi ha abbandonato chi? Il prete Dio, o Dio il prete?»; Shakespeare con Riccardo III, l’usurpatore che confessa: «non c’è creatura che mi ami»; Kerouac e il ladro seriale, un personaggio del romanzo Sulla strada; Mann e l’estraneità che impera nella Montagna incantata; Heidegger e altri ancora. Ma uno spazio più ampio, a sorpresa, è riservato a un testo arduo e famoso, La valle dell’Eden di Steinbeck, dominato dalla bellissima, perversa, seducente e tragica Cathy Ames. La ragione di questa scelta è chiara: «Una spietata perfidia, comunque non sorta dal nulla o dal capriccio, ma iniziata e alimentata dal remoto senso di mancanza, vissuto come esclusione e abbandono che incute paura».

Tanti altri sono i corollari che si irradiano dalla sorgente oscura del trauma primordiale vissuto da ciascuno di noi. L’autore li insegue con grande finezza e coinvolgimento: pensiamo all’accumulo di abbandono nell’orfano, nel bambino maltrattato dalla stessa famiglia, nell’anziano, nel lutto, che è una «riapertura dell’antica ferita», ma che è sottoposto anche a rimozioni e occultamenti in un’estrema forma di autodifesa. Si può persino concludere che «gratta gratta, anche dietro un delinquente (un peccatore) sta un orfano, o uno che si sente tale, da Adamo ed Eva in giù». Tanto altro è racchiuso nel volume di Pagazzi che avrebbe meritato in copertina – se non fosse abusato fino allo stereotipo – uno dei quadri più noti di Munch, L’urlo, «tra le immagini più emblematiche del senso di abbandono».

Al lettore lasciamo la pars construens del saggio, ossia la consolazione con cui Dio che si presenta «come una madre che consola suo figlio», o l’invito paolino ai cristiani di Tessalonica: «Confortatevi a vicenda» tra fratelli e umani. In questa ascesa dall’abisso tenebroso dell’abbandono alla vetta luminosa della fiducia si iscrive anche il titolo dell’opera: Chi ci separerà? È un interrogativo retorico che Paolo rivolge ai cristiani di Roma perché superino «la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada». Infatti nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (8, 35-39).