Il cardinale della diplomazia

da Il Sole 24 Ore – 22 ottobre 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il cardinal Ravasi tratteggia la figura di Achille Silvestrini, il cardinale originario di Brisighella, tramite un ritratto fornito dalla storica Emma Fattorini.

Brisighella, un centro agricolo in provincia di Ravenna, registra un primato unico nella storia della Chiesa, tanto da essere soprannominato «il paese dei cardinali»: ha, infatti, dato i natali a ben nove porporati, nonostante fosse incastonato nel cuore della Romagna anticlericale e repubblicana. Tra costoro spicca la figura di Achille Silvestrini, nato cento anni fa, il 25 ottobre 1923 (morirà a 95 anni a Roma, il 29 agosto 2019), un personaggio incisivo nella vita ecclesiale eppur riservato, capace di intrecciare dialoghi coi protagonisti della storia politica e culturale del secolo scorso, tanto da essere lui a celebrare nel 1993 i funerali dell’amico Federico Fellini.

«A vederlo in qualche ricevimento pubblico sembrava un attore degli anni 50, eppure era il curiale meno mondano che ci si potesse aspettare… Nulla di curiale e di clericale in lui che, come pochi, fu uomo di curia e sacerdote pieno». A disegnare questo ritratto essenziale è una storica di alta qualità come Emma Fattorini, dell’Università Sapienza di Roma, la cui competenza nella ricostruzione delle vicende ecclesiali contemporanee ma anche della religiosità nelle società post-moderne è veramente straordinaria. La conferma è proprio nella biografia dedicata al card. Silvestrini che si trasforma anche in un grande affresco storico generale di quel periodo.

Infatti, è nel 1948 che il giovane sacerdote approda a Roma e già nel 1953 entra in servizio presso la Segreteria di Stato, sotto il pontificato di Pio XII, un papa dalla complessa personalità nella quale coesistevano una paradossale indecisione e un fermo autoritarismo, «un politico fino al midollo», come lo definirà il gesuita Robert Leiber, suo consigliere permanente, sia pure non ufficiale. In verità, l’incontro decisivo di Silvestrini è con mons. Domenico Tardini, il futuro cardinale Segretario di Stato di Giovanni XXIII, una personalità capace di incrociare un’eccezionale finezza diplomatica, non priva però di auto-ironia, con una profonda spiritualità e carità cristiana.

È lui a introdurre il giovane don Achille in un’istituzione segnata – come scrive l’autrice – da una sorta di «utopia rinascimentale, pronta a offrire istruzione e formazione extracurriculare a ragazzi poveri e intelligenti col desiderio di educarli alla cura dell’umano, alla sensibilità estetica, al plurilinguismo». Era la «Villa Nazareth» che, dalla fondazione ad opera di Tardini nel 1946 ancor oggi continua la sua missione. La mia stessa conoscenza di Silvestrini fu, a più riprese, legata a iniziative di questo centro educativo e dei suoi allievi che spesso raggiungevano incarichi culturali, sociali e politici di rilievo.

Le tappe della vita di don Achille furono scandite dai pontificati del secolo scorso, da Giovanni XXIII a Paolo VI fino a Giovanni Paolo II che lo creò cardinale nel 1988. Fu, così, coinvolto nell’evoluzione della storia non solo ecclesiale di quegli anni che Fattorini riesce a ricostruire con una sequenza di sguardi d’insieme, ma anche penetrando nei particolari più significativi e suggestivi. Tanto per esemplificare, pensiamo alla Ostpolitik vaticana il cui forte impatto iniziale con Montini era destinato a estenuarsi con Wojtyla e che Silvestrini visse affiancando una figura così qualificata come il card. Casaroli, allora Segretario di Stato.

In questa luce è da segnalare l’atto finale del trattato di Helsinki (1975) sul «rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», che vide come protagonisti sia Casaroli sia Silvestrini. L’orizzonte si stava allargando coi viaggi papali, con una diplomazia della Santa Sede sempre più globale e geopolitica, col dialogo ecumenico e interreligioso, con l’irrompere della teologia della liberazione latino-americana e col mutato scacchiere europeo dopo lo sfaldarsi dell’Unione Sovietica. La grande sensibilità e apertura del cardinale aveva generato una vera e propria sfera di dialogo con l’orizzonte politico e culturale soprattutto italiano, e con gli attori più importanti di quel panorama, secondo i canoni però di una genuina laicità.

Anche in questo caso, basterebbe solo richiamare la revisione del Concordato nel 1984 che vide Silvestrini come artefice, ma anche i contatti con un vasto ambito di intellettuali (citiamo solo Guttuso) e di uomini pubblici credenti e non, dei quali ebbi notizie talora sorprendenti io stesso, parlando col cardinale. La sua parabola ebbe una sorta di crepuscolo, quando Giovanni Paolo II lo trasferì, prima, al tribunale ecclesiastico della Segnatura Apostolica e, poi, alla guida della Congregazione delle Chiese Orientali che egli seppe condurre con finezza, concludendo il mezzo secolo di attività nella curia romana nel 2003, ma attraversando poi anche i pontificati di Benedetto XVI e di Francesco.

Il mio ultimo incontro con lui fu il 14 marzo 2015 proprio nell’amata «Villa Nazareth», in occasione della celebrazione del 50° di sacerdozio di un arcivescovo emerito della Curia a lui profondamente legato, mons. Claudio Celli, esperto del complesso dialogo con la Cina. Il suo corpo era invecchiato, la voce spezzata, i movimenti inceppati; eppure il suo sguardo, il suo sorriso erano ancora vivi e intensi, espressivi della fede in Cristo e nella Chiesa, dell’intelligenza e dell’umanità che avevano contrassegnato la sua esistenza così ricca e appassionata.