Ecco, già canta l’araldo del giorno

da Il Sole 24 Ore – 18 febbraio 2024 – di Gianfranco Ravasi.

«Dicono che il popolo sia stato abbindolato dall’incantesimo dei miei inni. Di certo, non lo nego. Si tratta di un grande incantesimo, il più potente di tutti». L’ex-governatore imperiale e ora vescovo di Milano Ambrogio, nell’omelia che sta pronunciando nella domenica delle Palme del 386, non teme l’auto-elogio perché i carmi che aveva composto, anche in polemica con gli eretici ariani, registravano un successo spettacolare. In una pagina della sua opera sulla creazione, l’Esamerone, affermava che al respiro del canto liturgico, simile al «maestoso ondeggiare dei frutti dell’oceano» e alla voce «che saluta l’alba e che risuona al calar della notte, nessuna anima può essere impenetrabile e i cuori duri come pietra si inteneriscono e gli impietosi si fanno miti».

Devo riconoscere che fin dalla mia giovinezza di seminarista ho anch’io subìto il fascino di quell’«incantesimo» recitando o cantando nella liturgia ambrosiana gli inni di s. Ambrogio. Vorrei evocare l’incipit di uno di essi, l’Aeterne rerum conditor in dimetri giambici, dedicato all’alba e al canto del gallo che risveglia la luce: «Eterno creatore degli esseri, / che regoli la notte e il giorno / e determini i ritmi dei tempi / per alleviare il tedio, / già canta l’araldo del giorno, / sentinella della notte profonda, / luce notturna ai viandanti… / Al suo canto la stella del mattino, destata, / libera dalla tenebre il cielo…».

Naturalmente è l’originale latino ad essere già musica e immagine, faticosamente inseguito dalla traduzione che pure è significativa: col testo a fronte la dobbiamo a uno studioso di qualità, il toscano Federico Giuntoli, che ha approntato un mirabile «Millennio» einaudiano con l’intera raccolta dell’innologia cristiana presente nella liturgia Horarum iuxta Ritum Romanum, derivante dall’antico «Breviario» riformato dal Concilio Vaticano II. La trama su cui sono distribuiti questi carmi è quella dell’anno liturgico nelle sue varie scansioni, dall’Avvento al Natale, dalla Quaresima alla Pasqua, dalla serie delle settimane del «tempo ordinario» alle celebrazioni dei santi, da altre festività fino all’Ufficio dei defunti.

Si svolge così una sequenza di 296 carmi che coprono un imponente arco autoriale: si va, infatti, dal citato s. Ambrogio fino a un prolifico benedettino di Monte Cassino, Anselmo Lentini, uno dei maggiori artefici della riforma conciliare, morto nel 1989. In questo arco, accanto a figure poco note, brillano poeti di alto livello come Prudenzio e Sedulio (V sec.), Venanzio Fortunato (VI-VII sec.), Pier Damiani (XI sec.). Entra in scena con un suo testo persino Pietro Abelardo per la festa della Presentazione del Signore al tempio, Adorna, Sion, thalamum, con Giuseppe e Maria che avanzano offrendo a Dio il loro piccolo.

Giuntoli, oltre ad aggiungere il tradizionale apparato critico e la relativa strumentazione documentaria e da consultazione, il tutto approntato con rigore e acribia, premette un’ampia introduzione diacronica. Essa parte dalla culla del genere innico-liturgico che ha il suo archetipo in Ambrogio, ma anche in Ilario di Poitiers (310-367), del quale però non rimangono che composizioni apocrife, e prosegue lungo un itinerario secolare ove s’affacciano figure diverse e anche interventi ufficiali che segnano alcuni spartiacque. In particolare da segnalare Pio V col suo «Breviario» (1568) nato dallo spirito del Concilio di Trento, e soprattutto Urbano VIII (1623-44) che intraprese un’importante riforma dell’innario attraverso una commissione di revisori con alcuni esiti discutibili.

Lo spazio maggiore è riservato ovviamente al Concilio Vaticano II che aprì il suo percorso proprio col documento sulla liturgia: l’autore ricostruisce quella vicenda che ebbe come sbocco la nuova architettura delle celebrazioni e, quindi, la successiva definizione dei testi della Liturgia della Ore (Breviario) con la sua innodia che è appunto la sostanza di questo volume. Oltre alla ripresa dell’eredità poetica del passato si dovette necessariamente far ricorso a nuove composizioni secondo le esigenze della struttura ricreata e modulata sul calendario annuale rielaborato. Era il 1971, e accanto al grande patrimonio del passato risuonavano vari inni di nuova fattura.

È su questi ultimi, frutto spesso del citato p. Lentini, che si appuntarono le critiche dei custodi della precedente innologia, che ritenevano di modesta e persino «orribile» qualità i nuovi testi. In questo si distinse per aggressività un grecista e filologo fiorentino che ebbi occasione di conoscere personalmente, Dino Pieraccioni (1920-1989), autore di una diffusa grammatica scolastica di greco. Ai lettori attuali è aperta la possibilità di giudicare queste pagine poetiche latine contemporanee, tradotte – come tutte le precedenti – in modo esemplare da Giuntoli.

Rimane, comunque, un godimento percorrere l’intera raccolta, ascoltando anche i ritmi più antichi, come ad esempio quell’ Iesu, corona virginum (n. 287 del catalogo), le cui origini ignote forse precedono lo stesso s. Ambrogio. Eccone un frammento in versione: «Tu pascoli tra i gigli, / circondato dai cori delle vergini, / sposo fulgente di gloria…». Una nota a margine. È suggestivo il ricorso alla metrica classica (come accade spesso anche per la simbologia e la stilistica) col trionfo del dimetro giambico, inseguito quantitativamente da quello saffico, e non mancano anche gustosi acrostici. Un monito per certi canti un po’ sgangherati in uso in non po che assemblee liturgiche attuali.