Diritto alla Lentezza

“Chi va piano va sano e va lontano, chi va veloce va incontro alla sua croce”. Alcuni considerano i proverbi custodi di una saggezza popolare, altri invece semplici “frasi fatte” del rozzo parlare. Sicuramente però, questo detto meglio non ricordarlo alla sventurata lepre di Esopo, non tanto per alimentare interminabili dispute linguistiche, quanto più per evitarle il ricordo di un evento funesto.
La lepre e la tartaruga è una favola che, nel suo significato, include anche un certo inno alla lentezza . Fino a poco tempo fa, uomini come formiche correvano in giro per le città portandosi addosso le stimmati della fretta. Volti segnati dall’iperefficienza, dalla produttività, dall’ansia, dai ritardi. Poi la pandemia, in questo senso, una sorta di benedizione: l’obbligo di rallentare, fermarsi, riflettere. Questo evento straordinario ha ridefinito il nostro vivere e ci ha insegnato che il mondo in cui viviamo, per cui tanto ci affanniamo e sforziamo, è piccolo, finito ed incerto. Perché, dunque, correre come particelle impazzite? A quale scopo affannarsi così tanto, quando la durata del nostro soggiorno nel regno dei vivi è così breve? Per chi vale veramente la pena dedicare il nostro tempo e le nostre energie?
Adesso che la grande macchina è (quasi) pronta per ripartire non dimentichiamo l’importanza della lentezza . Non scordiamo il gusto dell’ozio, ma non l’ozio del nostro mondo che è ormai sinonimo di inattività, come sosteneva il celebre Milan Kundera nel suo noto romanzo intitolato, guarda caso, La lentezza, (“ chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca ”), bensì quell’otium opposto di negotium che nell’antica Roma era inteso come la cura di sé e della propria saggezza, quella via maestra che conduce alla felicità.
Adesso che come automi torneremo a popolare le nostre grigie città, spogliamoci da questo obbligo della fretta e continuiamo a godere, nel giusto modo, dell’effimero piacere dell’indolenza e della pigrizia, proprio come il mitico Alberto Sordi, padre di una romanità ormai rara, che alla sua “ pennica” non rinunciava quasi mai: “ sto disteso e godo nel sentire i clacson in lontananza. Quelli della gente che sta in macchina, in coda, suda, si affanna. Io ridacchio fra me e me e penso: ma ‘ndo annate? ”.
Adesso che la lentezza cederà di nuovo il passo alla velocità, celebriamo la tartaruga e diffidiamo della lepre, e senza fare ritorno all’aspra diatriba delle espressioni proverbiali, consideriamo solamente che forse chi (non) si ferma è perduto.

Tommaso Butò