Dire, fare, comparare lettera, testamento

da Il Sole 24 Ore – 3 settembre 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi illustra le risorse espressive contenute nella Bibbia ripercorrendo il saggio di Antonio Pitta e Francesco Filannino.

Alcuni anni fa ricevetti in dono da un mio lettore un volume raro che conoscevo solo per averlo consultato in una biblioteca specialistica: erano le Figures of Speech used in the Bible, uno strumento esegetico molto particolare elaborato da Ethelbert W. Bullinger nel 1898. Esso si inoltrava in un mare piuttosto insolito, quello della retorica biblica con le sue risorse espressive, già ampiamente praticate nella classicità greco-romana. Gli autori dei 27 scritti che costituiscono il Nuovo Testamento, pur appartenenti a un diverso orizzonte culturale, avevano adottato e riattato molte di quelle figure, di quei tropi e delle stesse strategie comunicative.

Parlando di loro sant’Agostino nella sua opera De doctrina christiana non esitava a osservare: «Sono ammirato e stupisco che essi si siano serviti della nostra eloquenza assoggettandola, per così dire, a un’altra eloquenza loro propria in modo che non facesse loro difetto, né eccedessero i limiti». Certo, quegli autori sacri avevano di fronte una sfida ardua perché dovevano rendere «appetibile» un evento scandaloso come la crocifissione, pena capitale riservata allora ai «terroristi» antiromani e agli schiavi (sarebbe un po’ come riproporre in modo attraente, solenne e sacrale l’attuale sedia elettrica!).

Eppure, questo grado zero della retorica è stato travalicato, anche perché il Nuovo Testamento allarga uno straordinario ventaglio tematico, simbolico e stilistico che precede e fluisce da quella croce. Pensiamo soltanto alla potenza delle parabole di Gesù, ma anche al genere epistolare (20 dei 27 scritti neotestamentari citati sono lettere) che di sua natura presuppone una comunicazione personale e sociale con regole specifiche. Inoltre, si deve tener conto di una duplicità di vettori espressivi: da un lato, certo, il testo scritto con le sue istanze specifiche; d’altro lato, l’oralità che ha diverse modalità comunicative e che è alle spalle della successiva cristallizzazione testuale, soprattutto nell’ambito religioso attraverso la predicazione (il kérygma o annuncio primario cristiano, l’approfondimento della catechesi, l’omelia liturgica).

Questa lunga premessa si colloca idealmente sulla soglia di uno straordinario manuale di retorica e stilistica neotestamentaria approntato da due noti esegeti italiani, docenti nelle università pontificie romane, Antonio Pitta e Francesco Filannino. Lo segnaliamo perché lo riteniamo adatto alla fruizione da parte non solo dei teologi ma anche dei docenti di materie letterarie e umanistiche che troveranno qui un’esaustiva elencazione di tutte le risorse della retorica. Sono, infatti, ben 105 le figure che sono state identificate, definite ricorrendo a formule coniate dagli autori classici (Platone, Aristotele, Cicerone, Quintiliano e così via) e soprattutto illustrate con le corrispondenti esemplificazioni presenti nei vari scritti del Nuovo Testamento.

Impressiona ovviamente la sequenza delle voci. Alcune appartengono già al lessico comune e sono facilmente riconoscibili: pensiamo alla metafora, al simbolo, al segno, alla tipologia, all’allegoria, all’iperbole, all’ironia, all’argomento a fortiori, all’antitesi, al chiasmo, alla diatriba, all’ossimoro, all’eufemismo e a vari altri modelli che vengono ormai usati anche nel linguaggio attuale. Ci sono, però, molte voci che suonano esotiche o persino esoteriche. Tanto per offrire qualche attestazione, suggeriamo di scoprire il valore della gezerah shawah, tipica dell’ebraismo, che indica il ricorso a una «corrispondenza testuale», ossia a un’isotopia di passi tra Nuovo e Antico Testamento. Si tratta in pratica di una filigrana per cui, ad esempio, se Paolo dichiara che «Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia», si riappropria per la sua tesi di una frase della Genesi (15, 6), continuando poi col profeta Abacuc (2, 4) per ribadire che «il giusto dalla fede vivrà» (Galati 3, 6-11).

Molte altre figure risulteranno ignote, ma in realtà appartengono da sempre anche all’antichità classica, come l’adinato che già etimologicamente (dal greco) rimanda a una realtà «impossibile»: «Potreste avere diecimila pedagoghi in Cristo ma non molti padri», scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (4, 15). Oppure la parechesi, che rimanda a termini dai suoni affini ma con differenti denotazioni e persino significati, ovviamente nell’originale greco: «Circa quel giorno o l’ora [della fine] nessuno (oudeís) sa (oîden) né (oudé) gli angeli in cielo, né (oudé) il Figlio» (Marco 13, 32). Molte altre scoperte sono possibili e sono rese trasparenti – nonostante il lessico inusuale – attraverso l’integrale citazione dei passi neotestamentari ove quel particolare fenomeno è attestato.

Andando oltre il divertissement culturale e l’applicazione didattica, questa «officina» conferma la straordinaria fiducia che il cristianesimo ha attribuito alla Parola divina che si esprime nelle parole umane, destinate ad aggregarsi in grammatica, sintassi e stilistica divenendo così messaggio non solo informativo ma performativo. L’assioma giovanneo (1, 14) del Verbo trascendente che si fa «carne» significa l’ingresso nella storia, ma anche nella lingua e nella cultura.

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