Cristologia come filo teologico

da Il Sole 24 Ore – 17 settembre 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi ripercorre la bibliografia dello scrittore e poeta Giovanni Testori e la figura del Christus patiens che compare nelle sue opere.

«Ti ho amato con pietà, / con furia ti ho adorato. / Ti ho violato, sconciato, bestemmiato. / Tutto puoi dire di me / Tranne che ti ho evitato». Cinquant’anni fa, nella raccolta poetica Nel tuo sangue (1973), Giovanni Testori lasciava cadere questa sua confessione autobiografica segnata dal suo stile inconfondibile. A cento anni dalla sua nascita e a trenta dalla sua morte, ci sembra giusto evocare anche nella pagina religiosa del nostro settimanale questo personaggio incomprimibile non solo nella sua fede ma anche nella sua stessa attività, perché è stato scrittore, poeta, drammaturgo, giornalista, polemista, pittore e critico d’arte.

Anzi, l’unico incontro diretto che ebbi con lui fu proprio in quest’ultimo campo. Era il 1989 ed egli mi aveva chiesto di premettere a un suo volume, iconograficamente sontuoso dedicato a Maria Maddalena nella storia dell’arte, un profilo biblico. Nonostante questa donna evangelica fosse stata erroneamente alonata da luci «rosse», a causa di un equivoco interpretativo, la tradizione l’aveva avvolta sempre nel sacro e nell’eros, un binomio caro a Testori, sviluppato in modo quasi barocco in tante sue pagine.

Sono state queste ultime il mio vero legame indiretto con lui, pur nella distanza da una certa sua interpretazione del cristianesimo nella storia, sulla scia di una dialettica che egli aveva intessuto con l’allora arcivescovo di Milano, il cardinal Carlo Maria Martini, il quale però non esitò a visitarlo in ospedale e a dialogare con lui alle soglie della sua morte nel 1993. Altri hanno approfondito l’assoluta creatività del linguaggio testoriano, ibridato di forme dialettali, di neologismi, di originali deformazioni lessicali, di mirabili recuperi di «fondi» antichi. O hanno già disegnato la mappa della sua visione che impostava e impastava anarchia e ortodossia, dissacrazione e spiritualità, eros e sacralità, come si diceva.

Se si vuole tentare di identificare un filo conduttore teologico all’interno della bibliografia testoriana piuttosto imponente, si potrebbe ricorrere alla cristologia, soprattutto nella tipologia del Christus patiens che è l’icona esplicita o implicita posta in filigrana in particolare alle opere drammatiche, ossia agli «oratori» sacri, che sono paralleli a quelli classici (questi ultimi costituiscono la «trilogia degli scarrozzanti», ossia L’AmletoMacbettoEdipus). C’è solo l’imbarazzo della scelta, a partire dal primo testo, quell’Interrogatorio a Maria, fieramente ancorato al centro della fede cristiana, l’Incarnazione. Il grembo della Madre, che è il tempio del concepimento, della nascita, della corporeità di Gesù, è l’emblema dell’umanità intera attraversata, sì, dalla fragilità e dal dolore, ma pervasa anche dal divino.

È facile citare, a questo proposito, la risposta di Maria al Coro che la interroga su quanto abbia sperimentato nel suo «santo ventre» e, quindi, nella sua persona in quella vicenda: «Una carezza, un precipizio, / una dolcezza, un lampo; / come se in me scendesse / oltre lo spazio, / dell’Esistente, del Non-nato / e della sua eterna carità, / il respiro, la gloria, / la bellezza, il fiato… / La storia si strinse tutta / dentro il mio magro grembo». Con questo dramma cristologico siamo nel 1979, ma è nel congedo della vita che Testori pone il suggello alla sua ricerca: siamo nel 1991-92 ed egli, ricoverato in ospedale, compone i Tre lai, simili a domande rivolte a Dio in forma logico-narrativa, secondo i canoni del genere «laio», un lamento melodrammatico di genesi popolare analogo alle sacre rappresentazioni popolari o alle intense e ingenue immagini delle cappelle dei «sacri monti».

Il trittico dei personaggi, CleopatràsErodiàsMater Strangosciàs incarna altrettante risposte agli interrogativi radicali: Cleopatra il suicidio, Erodiade l’attesa, mentre Maria addolorata è l’unica che accetta l’ingresso di Dio nella nostra umanità, come attesta il potente e libero dialetto del testo: «El Diu, / lu, propri lu, / l’ha mettù / dedent de la magna creazion; / l’è un vissi, un vermeno, un virus; / quel de vuré durà ’me lu / in dell’eternità di stel». Nell’interno della creatura Dio ha deposto una sorta di vizio, un verme, un virus: il voler durare come lui stesso, con l’eternità delle stelle. È questo, l’esito collaterale dell’Incarnazione del Figlio di Dio nella realtà umana: la divinità irradia con la sua eternità la nostra finitudine e mortalità.

Maria (tralasciamo Erodiade che, pure, è segnata da un’originale riflessione teologica testoriana) è, quindi, una sorta di chiave musicale che permette al poeta lombardo di cantare il mistero cristiano, fino alla «carna el sang» dell’eucaristia e all’abbraccio dell’amore misericordioso di Cristo nostro fratello che tutti avvolge, «tuc, ma propri tuc, / gnanca de fuori un furmighin», non escludendo neppure un microscopico formichino. Tanto altro dovremmo dire della cristologia di Testori in molte altre sue opere. Non potendolo fare in questo spazio limitato, ci accontentiamo di suggerire solo la lettura della sua mirabile versione poetica della Prima Lettera ai Corinti di Paolo (1991), canto della carità e della risurrezione, e di ricorrere al prezioso Invito alla lettura di Giovanni Testori di Annamaria Cascetta (Mursia 1995).

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