Come (e come non) costruire dal basso la cittadinanza europea

Sono fermamente convinto di avere, a 23 anni, delle responsabilità civiche che valicano il confine nazionale. Pur trovandoci ben lontano dalla sedimentazione del concetto di cittadinanza europea (prossima al compimento dei trent’anni), avverto in me e in altri ragazzi della mia generazione una forte aspirazione di inclusione comunitaria. Non so dire se sia qualcosa di mutuato da convinzioni politiche, inculcato durante la fase dell’apprendimento o deliberatamente selezionato tra le possibili opinioni offerte in articoli di giornale, chiacchierate tra amici e cene di famiglia. A ogni modo, riconosciuta la mia posizione, riesco agevolmente a individuarne amici e nemici, cercando, però, di non adottare mai una prospettiva meramente dialettica, ma volendo sempre arricchire la mia idea di informazioni, dettagli e soprattutto argomentazioni. Pertanto, percepisco come mie alleate le considerazioni dell’europarlamentare Giuliano Pisapia, che ha parlato, a pochi giorni dall’inaugurazione della Conferenza sul futuro dell’Europa (lo scorso 9 maggio), di costruzione dal basso dell’appartenenza europea, rifacendosi direttamente a quanto scritto nell’ottantenne Manifesto di Ventotene da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Dando per scontata l’importanza del dibattito europeo attualmente in corso, bisogna anche riconoscere che una vera e propria costruzione dal basso non può escludere le più popolari e attese occasioni di compartecipazione. Su questo piano, credo che i recenti successi italiani in manifestazioni europee (i Maneskin vincitori all’Eurovision e la nazionale italiana al campionato europeo di calcio) possano seriamente contribuire all’autorappresentazione nell’istituzione continentale, spesso osteggiata proprio sottolineando la marginalità italiana in confronto ad altri modelli nazionali ritenuti vincenti. Anche le insidie, tuttavia, possono celarsi dietro semplici partite di calcio. Si pensi alla scelta organizzativa di un europeo a vocazione itinerante, al fine di omaggiare i sessant’anni della competizione, adempiuta, però, costringendo alcune nazionali a percorrere distanze superiori: i casi emblematici dei due opposti sono stati la Svizzera, peregrina europea per più di 13.500 km, e l’Inghilterra, costretta a lasciare lo stadio casalingo in una sola occasione. Appare ancora più insidiosa la finale, giocata in uno stadio – Wembley – che giuridicamente neppure ricade nell’ “Europa libera e unita”, con certa tifoseria inglese pronta a considerare un’eventuale vittoria sugello della propria fuoriuscita dall’Unione: solo cogliendo la soggiacente tendenza divisiva, allora, si possono comprendere l’incapacità di tenere al collo la medaglia di secondi classificati, le gravi invettive razziste contro i giocatori colpevoli di aver sbagliato i rigori decisivi o il disinteressamento degli addetti alla sicurezza di fronte ai disordini che hanno accompagnato la gara. Conoscendo il tifo nostrano, sappiamo di non esser stati da meno in passato, eppure possiamo ora gioire e gridare a gran voce che, stavolta, ad aver vinto è stata un’Italia di respiro europeo.

Filippo Vaccaro

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