Coltivare, custodire, realizzarsi come umani

da Il Sole 24 Ore – 1 ottobre 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi parla del lavoro attraverso un excursus proposto dallo studioso francese André Lacoque secondo il quale la Bibbia rappresenta «il più grande codice» della riflessione sul tema.

«Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei stare seduto per ore a guardarlo». Così ironizzava uno dei buontemponi, protagonisti della vacanza sul Tamigi, dei Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome (1889). A lui, decenni dopo, faceva eco Groucho Marx: «Eravamo in tre e lavoravamo come un sol uomo. Cioè due di noi poltrivano sempre». Naturalmente all’antipodo, c’è anche una vera e propria letteratura (e filosofia) del lavoro come realizzazione della persona umana. Per tutti basta rimandare alla Chiave a stella di Primo Levi (1978): «L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».

È indubbio che nell’antropologia biblica di base abbozzata dal c. 2 della Genesi l’homo religiosus e sociale è accompagnato dal profilo di lavoratore, secondo due traiettorie. Da un lato, ha il compito di «coltivare e custodire» la terra (2,15), rivelandosi quindi homo faber; d’altro canto, deve imporre il nome agli animali, un atto simbolico che nell’antico Vicino Oriente equivaleva alla scienza, trasformandolo in homo technicus, dato che il «nome» era la definizione dell’essenza stessa della realtà e della persona (2,19-20). In un contrappunto suggestivo tra Bibbia e cultura moderna, uno studioso di origine francese, ma docente a lungo a Chicago, ove morirà nel 2022 a 94 anni, André Lacocque, ha tracciato in un suo saggio apparso in inglese e ora tradotto in francese, un quadro della creatività insita al lavoro partendo proprio da quella pagina della Genesi.

Che la Bibbia sia per lui «il più grande codice» della riflessione su questo tema appare dal suo stesso programma preliminare: «L’annuncio biblico non è destinato ai soli Israeliti ma anche agli umani di ogni sorta, tempo e luogo, non solo alla fede ma anche alla ragione. Dobbiamo, quindi, esaminare anche ciò che la filosofia universale e, in particolare, occidentale ha da dire riguardo agli esseri umani e al loro lavoro». È in questa linea che all’esegesi di quel capitolo della Genesi si aggregano in un tessuto armonico, dai colori però eterogenei, Hegel, Freud, Weber, Ricoeur. Da quest’ultimo filosofo francese, che fu amico e coautore con Lacocque, è desunta la chiave di lettura, ossia l’ermeneutica: «Ogni tradizione vive grazie all’interpretazione attraverso la quale permane e si rivela vivente».

Si configura, così, un grappolo di questioni suggestive come il linguaggio, la proprietà, il tempo, lo spazio, la morte e non ultima, la deformazione del lavoro in fatica e travaglio (emblematico il lessico: in latino labor è appunto «fatica» e travail in francese «lavoro»). Si passa, così, al c. 3 della Genesi, quello – per intenderci del «peccato originale» – ove si verifica «la distorsione dell’ordine edenico», ossia dell’Eden paradisiaco del c. 2: «Con dolore trarrai il cibo dal suolo per tutti i giorni della tua vita… Col sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra perché da essa sei stato tratto» (3,17-19). Tuttavia, osserva lo studioso, «anche in questa dimensione di dura fatica, il lavoro continua dialetticamente a comportare un aspetto costruttivo: produttività, procreazione, cultura».

È interessante segnalare che i due verbi ebraici che classificano il lavoro umano, ‘abad shamar, ossia i citati «coltivare e custodire» (2, 15), di per sé sono i termini religiosi della pratica dell’alleanza tra Israele e Dio, col significato di «servire» (culto) e «osservare» (la legge divina). Si ha, quindi, oltre a quello del Sinai, un patto primordiale tra umanità e Creatore che può essere vissuto e rispettato attraverso il rapporto attivo con la terra, la cui violazione genera colpa. In questa luce si comprende come il tema ecologico possa avere anche un grave risvolto teologico-morale: è ciò che sta nel cuore dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco (2015), fondata sul Vangelo della creazione e protesa a celebrare un’«ecologia integrale», per cui inseparabili sono le questioni ambientali dai fenomeni umani sociali.

In appendice, risaliamo all’ironia iniziale sull’inerzia. Essa ha due rappresentazioni letterarie straordinarie nell’Oblomov di Ivan A. Gončarov

 (1859) con la sua indolenza immobile fisica e psichica e nella snervante abulia della Coscienza di Zeno di Italo Svevo (1923), figure simboliche del settimo vizio capitale, la pigrizia, che ha corollari più sofisticati nella Nausea di Sartre (1938) e nella Noia di Moravia (1960). A questo proposito vale il monito che l’apostolo Paolo rivolgeva ai cristiani di Tessalonica: essi, agitati da fremiti apocalittici settari sull’imminente fine della storia, in pratica si consideravano dimissionari nei confronti dei loro impegni professionali e sociali.

Nella seconda Lettera che scrive a quella comunità, Paolo non esita, allora, a opporre il suo esempio di lavoratore che «non mangiava il pane di alcuno gratuitamente», per concludere con un proverbio-regola lapidario: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi!» (3,7-10). Pochi sanno che questa norma paolina – naturalmente senza rimando all’autore – è entrata nella Costituzione sovietica del 1918 e nell’inno popolare Bandiera rossa: «E noi faremo come la Russia: chi non lavora, non mangerà!».

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