Colorare il nero della sofferenza

da Il Sole 24 Ore – 19 maggio 2024 – di Gianfranco Ravasi.
In questo articolo il Cardinal Ravasi ci presenta il saggio di Lella Ravasi Bellocchio che contribuisce, attraverso la figura di Giobbe e di una serie di donne, a ripensare l’intera tematica.

Quello che mi unisce a Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, non è il legame del sangue, inesistente nonostante il cognome, ma un ormai antico e intenso dialogo, intersecato da altre figure a noi care, come p. David M. Turoldo, Gina Lagorio, nota scrittrice, e sua figlia Silvia, fine interprete dei fenomeni antropologici (delicato è il suo saggio Giobbe e lo scoiattolo). Ma, come si vedrà dalla lettura delle pagine sempre nobili e mobili, coerenti e sorprendenti, del volume I confini del dolore, sulla ribalta sale una folla di altri personaggi, anche letterari.

Due sono, però, i protagonisti. Essi aleggiano – quasi volteggiando nel cielo dello spirito, come certi uomini, donne e angeli dei quadri di Chagall – e popolano un testo che è simile a un racconto in cui, però, i generi letterari sono in costante metamorfosi. Inoltre, l’inchiostro della penna dell’autrice dal nero di base della sofferenza trascolora in una vivace variazione di cromatismi tematici stilistici.

Il primo dei due protagonisti è un emozionante personaggio biblico, Giobbe, la cui voce è una sorta di basso continuo o di filigrana in quest’opera. Lo afferma programmaticamente la stessa Lella: «Questo libro rappresenta il tentativo di intrecciare, in un itinerario di ricerca, la figura di Giobbe e la sua storia con alcune vicende di donne in analisi. Il filtro di lettura, il filo conduttore delle storie, è Giobbe il cui perché sfida il mistero del dolore e dell’amore». Questa presenza drammatica giustifica anche il rimando all’esegeta che a quel libro biblico straordinario, fatto di 8.343 parole ebraiche distese in 42 capitoli, ha dedicato una vasta investigazione letteraria e teologica, dagli esiti sempre fluidi e aperti.

Aveva, infatti, ragione s. Girolamo, il traduttore latino della Vulgata, quando si era trovato di fronte a questo straniero (Giobbe è una sorta di sceicco di Uz, un territorio orientale un po’ enigmatico ma non ebraico) e alle sue parole sempre roventi e potenti: «Spiegare Giobbe è come trattenere tra le mani un’anguilla o una piccola murena: quando più la premi tanto più ti sfugge di mano». A stringerla forte ci ha pensato, però, un canone ermeneutico duplice. Da un lato, è stata l’etichetta della “pazienza” divenuta proverbiale, già codificata nel Nuovo Testamento dalla Lettera di Giacomo (5,11), interpretazione valida solo per la cornice narrativa posticcia (cc. 1-2 e 42), ma radicalmente smentita dal corpus integrale del poema.

D’altro lato, quella più fondata ma insufficiente che trova in quelle pagine laceranti il tema del mistero del dolore resistente a ogni teodicea.

Pur cercando di scardinare anche questa seconda lettura, senza però dissolverla, l’esegeta ne riconosce la fecondità, e il saggio della Ravasi Bellocchio ne è la conferma. Dalla protesta del sofferente biblico che è il tronco dell’opera fiorisce, infatti, una chioma di ramificazioni tematiche, come la sapienza (che va oltre l’intelligenza, e che appare nella sua tipologia femminile), il sogno, la guarigione, la vita, l’amore, l’ideale, la parola e persino la guerra decifrata nella sua pulsione distruttiva attraverso un curioso carteggio del 1932 tra Freud e Einstein.

Alla voce del grande attore biblico – che, per altro, è stata oggetto dell’originale e famosa Risposta a Giobbe di Jung, anch’essa “anguilliforme” e riletta da Lella in modo suggestivo – e alla sua “teologia arrischiata” e rischiosa si associano altre testimonianze bibliche. Esemplare è il contrappunto, che è persino controcanto dialettico, tra Qohelet con la sua crisi della sapienza tradizionale, già avviata da Giobbe col suo rigetto dei teoremi consolatori dei tre (più uno) amici, e la solarità primaverile del Cantico dei Cantici e della sua appassionata interprete la Sulammita. Un palinsesto biblico, quindi, che è però campito da una legione di poeti contemporanei e dalle molteplici letture dell’autrice.

A questo punto dobbiamo lasciare spazio al secondo protagonista che, in realtà, è plurale, essendo una sequenza di donne in analisi nello studio della psicoanalista Ravasi Bellocchio. Non bisogna, infatti, dimenticare che il sottotitolo del libro è affidato a un interrogativo provocatorio: «È possibile arginare la sofferenza psichica?». Netto è il raccordo col primo protagonista: «Giobbe in analisi». La prima a entrare in scena è la tedesca Petra, a cui subentrano l’africana Joy, la carcerata Caterina e la sconvolgente Gloria che ha appena annegato la sua neonata di tre mesi in un bidet.

Letizia è una scienziata bella e felice la cui esistenza è spezzata da un lutto atroce; accanto a lei il medico Anna, che si trova immersa nel gorgo del Covid. E poi una madre, Claudia, Rita nella camera di rianimazione, Flora con un marito distrutto dal cancro, un evento che genera in lei uno sconvolgente transfert sul loro bambino. È un occhieggiare continuo di storie che transitano sulle pagine del libro ma che si presentano al lettore a narrare – attraverso la voce dell’analista – le loro vicende che hanno un rimando interpretativo costante proprio in quell’opera sacra apparentemente così remota.

Lo sguardo «innocente, stupito o perduto» di queste donne sofferenti sale oltre l’orizzonte del dolore umano e punta verso Dio, come aveva fatto Giobbe, pronto a denunciare l’Onnipotente in un’impossibile assise giudiziaria. Per la finale, Lella Ravasi Bellocchio si affida, allora, alla Sylvia Plath delle Muse inquietanti: «Avvengono miracoli, / se siamo disposti a chiamare miracoli / quegli spasmodici trucchi di radianza. / L’attesa è ricominciata, / la lunga attesa dell’angelo, / di quella sua rara, rarefatta discesa».