Cancel the cancel culture

In una società liberale come la nostra, fondata sul pensiero critico e sul contraddittorio, è sorprendente come ormai non si possa più proferire parola senza che qualcuno si senta offeso.

Diversi intellettuali sostengono infatti che lo strumento par excellence per salvaguardare la libertà di parola senza ledere i diritti altrui (l’arci noto politicamente corretto), sia ormai diventato una sorta di bavaglio per le persone. Ritengono ciò, perché credono che questo strumento, sviluppatosi all’interno e in difesa del pensiero liberale, adotti ormai i metodi illiberali più tipici per eliminare una persona dal confronto, come etichettare e bandire.

Questa nausea per la deriva ipocrita del politically correct, che è stata resa esplicita nell’ormai nota Letter on Justice and Open Debate, pubblicata sull Harper’s Magazine, è in realtà il motivo di risentimento minore degli intellettuali che hanno sottoscritto tale lettera.

Infatti, lo sdegno dei firmatari si è riversato principalmente su un problema ad esso collegato: la cancel culture (cultura della cancellazione). Con questa espressione, si indica la recente tendenza, specialmente sui social media, ad attaccare in massa quei personaggi pubblici che si sono espressi (non importa quando) in maniera controversa su argomenti delicati. È importante evidenziare come l’obiettivo di tale cancellazione non si limiti esclusivamente ad un attacco alla reputazione di colui che si è pronunciato ambiguamente, bensì al licenziamento dal suo posto di lavoro. Questo spiega anche il perché l’hashtag #XYZisoverparty sia diventato di tendenza su Twitter: il mondo dei social determina che la “festa” per qualcuno (“XYZ”) è finita dopo che di quest’ultimo emergono idee o comportamenti ritenuti sbagliati.

Adesso si può comprendere meglio come, secondo una delle tante prospettive, la neonata cancel culture sia una conseguenza dell’esasperazione del politicamente corretto: è infatti contraddittorio che un movimento sorto in difesa delle minoranze, per le quali rivendica giustizia ed uguaglianza, soprattutto nella libertà d’espressione, chieda il licenziamento di un professionista per le sue idee piuttosto che confutarle o dar vita ad una sana dialettica. Teoricamente una società liberale dovrebbe evitare ciò.

Inoltre, sorge spontaneo interrogarsi su quale sarà il futuro della libertà di parola, su quanto si assottiglierà il limite di ciò che si può dire senza subire ritorsioni.

Infine, in un’analisi più ampia, qual è il giudizio che dovremmo avere dei social? Privilegiamo il fatto che ora godiamo di una maggiore libertà di parola oppure che in fondo sono anche un mezzo più veloce per ostracizzare e mettere alla gogna le persone semplicemente perché le pensano in modo diverso da noi?

Ma soprattutto, siamo sicuri che la cancel culture sia il prodotto adatto di una società che vuole giustizia e libertà?

Tommaso Butò