08 Feb Abbagliati dagli ori della chiesa di Chora
da Il Sole 24 Ore – 4 febbraio 2024 – di Gianfranco Ravasi.
In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi ci racconta dello splendido volume che Emanuela Fogliadini ha dedicato alla chiesa di Chora.
Ogni volta che ho visitato Istanbul mi sono sempre recato a Chora (in greco «campagna, territorio») per trascorrere qualche ora in contemplazione di quel capolavoro che sono i mosaici della chiesa di un antico monastero ora scomparso. Nel 2020 il governo turco, unitamente alla più celebre basilica di Santa Sofia, l’ha trasformata in moschea, coprendone quelle pareti sfavillanti e chiudendola al pubblico, nonostante fosse stata dichiarata patrimonio artistico universale dell’Unesco. C’è, però, per me e per tutti coloro che desiderano scoprire questo gioiello ancora una possibilità di visita.
È lo splendido volume che un’importante studiosa dell’iconografia e della teologia bizantina, Emanuela Fogliadini, ha dedicato alla chiesa di Chora. Sfogliando le immagini e leggendone il commento, sarà, come varcare di nuovo la soglia, superare i narteci di ingresso, percorrere l’aula centrale (il naós) e giungere alla cappella funeraria (il parekklésion). Si sarà, così, «avvolti da un tripudio di mosaici e affreschi che, attraverso piccole tessere minuziosamente disposte e soggetti accuratamente selezionati, raccontano in immagini la storia della salvezza cristiana. Il programma iconografico è studiato nei dettagli: ogni parete, lunetta, pennacchio, volta, cupola, abside accolgono episodi biblici e apocrifi che si srotolano davanti agli occhi di uno spettatore chiamato a diventare fedele o a rinforzarsi nella propria fede».
Così l’autrice in apertura al viaggio che le sue pagine propongono. In realtà si tratta di una sorta di pellegrinaggio mistico-estetico di impronta cristologica e mariologica. Alla radice di quest’opera c’è un personaggio originale, contemporaneo di Dante (nasce nel 1270), Teodoro Metochita, filosofo, astronomo, politico, logoteta, ossia responsabile della Corte dei Conti dello Stato bizantino. Tra il 1315 e il 1321, guidando un nucleo di iconografi, egli compiva questo miracolo artistico, permettendoci di scoprire anche un suo ritratto: in ginocchio, barbuto, con occhi piccoli e naso pronunciato, abbigliato con un sontuoso caffetano verde-azzurro ricamato in oro e col copricapo ufficiale legato alla sua carica, egli presenta a Cristo il modellino della sua chiesa.
Descrivere il programma iconografico è arduo perché è la contemplazione diretta, e ora indiretta attraverso queste pagine, che rende ragione di una teologia fatta immagine. Si parte con l’infanzia di Maria, ignota ai Vangeli canonici, affidata alla testimonianza di un testo apocrifo delizioso, il Protovangelo di Giacomo, scoperto nel 1582 da un umanista francese, Guglielmo Postel, e da collocare forse già nel II secolo. È una sfilata di episodi sorprendenti che vedono l’entrata in scena anche dell’anziano vedovo Giuseppe, il futuro sposo della Vergine, divenuto tale attraverso una curiosa selezione simbolica «vegetale» tra i vari candidati.
Tocca poi all’infanzia «canonica» di Gesù, a cui segue il suo ministero pubblico intessuto di miracoli: l’analisi che Fogliadini propone sulle rappresentazioni è così minuziosa da permettere la visione di componenti minime eppure significative che svelano l’acutezza e l’accuratezza di questa sorta di «esegesi» visiva condotta sulle narrazioni evangeliche. Vorrei, però, in questo itinerario in cui domina lo stupore del pellegrino/visitatore, citare un paio di scene davanti alle quali sostavo con emozione per la potenza e l’intensità delle figure, fermo restando che affascinanti erano, ad esempio, anche i soggetti simbolici anticotestamentari «prefigurativi» della maternità divina di Maria (la scala di Giacobbe, il roveto ardente, l’arca dell’alleanza, la profezia di Isaia c.7).
La prima è la Deesis, ossa la «supplica», che ha al centro le due figure di Cristo e Maria: era per me, e credo per molti, difficile staccarsi da quei volti. Quello di Gesù è dolce e ieratico al tempo stesso, irradia pace nella sua perfezione che non è infranta ma esaltata dagli occhi asimmetrici, col corpo avvolto da una tunica azzurra che copre una veste purpurea e con la destra benedicente. La Vergine è a lato, protesa con le mani verso il figlio ed è l’incarnazione dell’intercessione, mentre il suo volto mesto non osa alzare gli occhi verso Cristo, consapevole del peso del peccato del mondo che affida idealmente a lui per la redenzione, mentre la sua veste azzurra è trapuntata da tre stelle sfolgoranti.
Ed è nella citata cappella funeraria, il parekklésion, la seconda tappa della mia sosta davanti al catino dell’abside. Il Cristo glorioso ora è al centro nella mandorla stellata dell’Anástasis, cioè della sua risurrezione; le sue gambe divaricate e piantate in modo possente gli permettono di strattonare con le sue mani ed estrarre con una stretta vigorosa Adamo ed Eva dalle loro tombe afferrandoli per il polso. Sotto i suoi piedi giacciono scardinate le porte degli inferi, così come le catene che le serravano. L’umanità intera, attraverso i progenitori, è riportata alla vita nell’immortalità divina. Altre figure affollano questa scena, Davide, Salomone, Abele, il Battista, facendo da coro a questo evento salvifico supremo.
Raccogliamo, perciò, l’appello finale dell’autrice che invita anche solo a «sfogliare il volume, lasciarsi incontrare dalle immagini, respirare l’atmosfera che Metochita e i monaci vissero durante le liturgie» celebrate all’interno di quest’ultimo tesoro di Bisanzio, purtroppo oggi celato alla contemplazione diretta.