11 Ott Rileggendo il Discorso di Ratisbona
Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” è a cura di Gabriele Palasciano. Un testo di Severino Dianich*.
Ormai non c’è osservatore attento che non riconosca al discorso tenuto da Benedetto XVI nel 2006 a Regensburg ben altra rilevanza di quella che ha ottenuto, a causa di alcune pericolose reazioni del mondo islamico, dai media del tempo. Papa Benedetto vi avanza, ancora una volta, la monumentale proposta, classica per la tradizione cattolica, della ragione, di una “ragione aperta”, come la necessaria piattaforma su cui intrecciare il dialogo della fede con la cultura contemporanea. In una società civile contrassegnata dallo statuto della laicità dello Stato, le religioni hanno la possibilità di interloquire con le altre sue istanze sulla base della ragione, dando così il loro contributo allo sviluppo di un ethos da tutti condivisibile. La teologia cattolica ha percorso questa strada negli ultimi secoli, opponendosi sia al biblicismo e all’antropologia negativa del Protestantesimo, sia al Positivismo scientifico, sia più di recente al “pensiero debole”, che sta caratterizzando il mondo postmoderno.
Benedetto XVI a Regensburg, come negli altri suoi discorsi tenuti di fronte a importanti istanze della società civile, abbandona saggiamente il tono polemico e quel piglio aggressivo che ha caratterizzato l’apologetica cattolica tradizionale, per esporre il suo pensiero con lucidità e fermezza di convinzioni, senza pretendere riconoscimenti del suo carisma di papa della Chiesa cattolica, per affidarsi solo al valore delle sue argomentazioni. Con tutto ciò il discorso di Regensburg sviluppa una sua elegante polemica con buona parte della cultura contemporanea, su due fronti. Da un lato, si avanza una robusta critica a quella razionalità contemporanea, oggi molto diffusa, che in realtà mortifica la ragione, racchiudendola nei limiti di una ragione “scientifica” di stampo positivista, «che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture». Così facendo, infatti, essa si ritrova «incapace di inserirsi nel dialogo delle culture». Da un altro lato si critica la tendenza alla «de-ellenizzazione del Cristianesimo», pur riconoscendo che essa «domina in modo crescente la ricerca teologica», per sostenere il convincimento «che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana». Il Discorso di Ratisbona, quindi, pur nell’intento di difendere lo spazio del dialogo della fede con il pensiero moderno, vi si contrappone su ambedue i fronti, quello della cultura laica di una buona parte del mondo scientifico e culturale contemporaneo, e quello di una buona parte della teologia contemporanea, impegnata nella ricerca di un’ermeneutica della fede, meno condizionata dalla tradizione occidentale e aperta alla prospettiva di nuovi strumenti interpretativi, con cui operare negli spazi plurali, sia della ormai frammentata cultura occidentale, sia delle altre grandi culture tradizionali non influenzate dal Cristianesimo.
Il punto più delicato del discorso, sul quale la riflessione teologica deve cimentarsi, è quello dell’intreccio, che papa Ratzinger ritiene essere una componente essenziale della fede, fra il logos greco e la rivelazione biblica. Pur essendo stata deviante l’eccessiva attenzione data alla citazione del dialogo dell’imperatore Manuele II Paleologo con un sapiente musulmano, nel quale si accusava l’Islam di irrazionalità nel voler imporre la fede con la forza, essa merita di essere ripresa. Ci si potrebbe interrogare, infatti, se il Paleologo intendesse davvero aprire una discussione su quella tesi della teologia musulmana, riferita in un altro tratto del discorso, per la quale «la trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio». È anche possibile che, più semplicemente, egli avesse inteso notare, in maniera piuttosto pragmatica, quanto fosse irragionevole, illogico, costringere con la violenza gli uomini a credere in Dio, visto che Dio, anche secondo l’Islam, «non si compiace del sangue». Accusare l’interpretazione tipica della visione musulmana della trascendenza di Dio di esser colpevole delle violenze dell’Islam porrebbe in questione, infatti, anche quella teologia cristiana che, pur confidando nell’analogia fra la natura di Dio e la ragione umana, poteva ritenere che, se gli “infedeli” non devono essere costretti a credere, coloro «che hanno accolto la fede e la professano, come sono gli eretici e gli apostati», devono essere costretti, anche fisicamente, «a conservare quanto un tempo avevano accolto» (Tommaso d’Aquino, IIª-IIae q. 10 a. 8 c). Lo stesso Concilio Lateranense IV, citato da papa Benedetto, non ripudiava per questo caso l’uso della violenza, attribuendo singolari meriti ai «cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici». Sentieri tortuosi della ragione! […]
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* Severino Dianich è sacerdote cattolico della diocesi di Pisa, dove è stato parroco e vicario per la pastorale della cultura e dell’università. Ha insegnato nella Pontificia Università Gregoriana, alla Facoltà Teologica di Palermo e, infine, come ordinario di ecclesiologia, nella Facoltà Teologica di Firenze. Nel campo dell’ecclesiologia ha fatto ricerche e tenuto corsi anche sulle relazioni fra la vita della Chiesa e la creazione artistica, soprattutto nell’ambito dell’architettura. Tra le sue numerose pubblicazioni: Il Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, Assisi 2016; Per una teologia del papato, San Paolo, Cinisello B. 2010, Chiesa e laicità dello stato. La questione teologica, San Paolo, Cinisello B. 2011; La Chiesa cattolica verso la sua riforma, Queriniana, Brescia 2014; Diritto e teologia. Ecclesiologia e canonistica per una riforma della Chiesa, EDB, Bologna 2015; Magistero in movimento. Il caso papa Francesco, Dehoniane, Bologna 2016.