Padre dei piccoli sofferenti

In occasione del prossimo “Cortile dei Gentili” che si terrà a Lecco il prossimo 10-11 giugno (“Il dolore innocente”, qui i dettagli), ecco un testo del Cardinale Gianfranco Ravasi pubblicato sul “Il Sole 24 Ore” domenica 5 giugno 2016. 

Sessant’anni fa, il 28 febbraio 1956 moriva a 54 anni a Milano don Carlo Gnocchi, una figura che non ha bisogno di nessuna icona (anche se è stato beatificato nel 2009), tanto è stata luminosa la sua testimonianza di carità evangelica. Accompagnato da due ampie e intense riflessioni – l’una del cardinale Angelo Scola e l’altra del filosofo “laico” Salvatore Natoli, che al tema ha dedicato in passato un saggio fondamentale (L’esperienza del dolore, Feltrinelli 2002) – viene ora riportato un piccolo ma appassionato testo di don Gnocchi dal titolo esplicito, Pedagogia del dolore innocente. Questo scritto fu edito proprio in occasione della sua morte e la folla che seguiva il suo feretro entrato in Duomo per il rito funebre celebrato dall’allora arcivescovo, Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, stringeva tra le mani questo libretto-testamento, centrato su quel “caso-limite” a cui egli aveva consacrato la sua opera più importante, il dolore dei bambini.

È un orizzonte tenebroso nel quale si sente il grido lacerante dei piccoli malati ma anche la protesta sarcastica dell’Ivan dei Fratelli Karamazov: «Se tutti devono soffrire per comperare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro conquistare l’armonia con la sofferenza». Oppure risuonerebbero le parole del dottor Rieux nella Peste di Camus davanti al dolore di un piccino, infetto dal morbo: «Rifiuto sino alla fine di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». Per don Gnocchi, invece, con questa realtà scandalosa «si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano […] e consolare la pena di ogni uomo percosso e umiliato dal dolore». La sua è forse una lettura un po’ semplificata della complessità teologica della questione attorno alla quale si è accanita per secoli la ricerca umana, ma riesce a riflettere un aspetto dell’impostazione cristiana classica.

Due sono le tesi fondamentali che reggono quel testo. La prima, più delicata e problematica, potrebbe essere chiamata di espiazione solidale e ha una sua base ideale nella solidarietà che vincola ogni creatura umana all’umanità intera. C’è una solidarietà “verticale” che ci raccorda alla radice adamica: anche il bambino «soffre in quanto uomo, partecipe quindi dell’umanità, responsabile in radice della colpa originale e perciò coinvolto nella sua secolare espiazione». C’è, come corollario, anche una solidarietà “orizzontale” che lega tutti i membri dell’umanità tra loro, «consorti nello stesso destino», partecipi della stessa carne e della stessa vita. In questa linea, continua don Gnocchi, «come particella di un grande corpo sociale, dove tutto il bene e tutto il male “entrano in circolo”, anche il bambino espia la propria quota, parte degli errori e delle colpe personali commesse da tutti gli uomini».

C’è, però, una seconda tesi più specificamente cristiana, che potremmo definire mistico-cristologica ed è qui che don Carlo rivela l’originalità del messaggio cristiano sul tema. Esso ha come riferimento decisivo il sacrificio redentore di Cristo in cui siamo coinvolti come membra del suo corpo. E qui è ovvio il rimando alle parole di Paolo nella resa tradizionale (in realtà il testo paolino ha un significato differente): «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Colossesi 1,24); la resa più genuina è, invece: «do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne».

Si ha, dunque, con questa lettura – secondo don Gnocchi – una «arcana confluenza del sangue dell’uomo nel fiume redentore del sangue di Cristo che, scendendo dal Calvario, si diffonde nel mondo attraverso la storia». In questa luce la sofferenza degli innocenti acquista un senso profondo perché più del nostro, il loro sacrificio è simile «a quello dell’Agnello di Dio». Si ha, dunque, col cristianesimo, il riconoscimento della «eminente dignità del fanciullo sofferente» che diventa –come suggerisce don Gnocchi con un’intuizione altamente “mistica” – «una piccola reliquia preziosa della redenzione cristiana» e un segnale dell’apertura alla gloria pasquale.

Nelle parole di don Gnocchi si percepisce l’eco di certe sue letture legate al personalismo francese, in modo particolare al filosofo francese Emmanuel Mounier (1905-1950) la cui figlia Françoise era stata colpita da un’encefalite acuta che l’aveva gettata in una notte tenebrosa dalla quale non era più emersa. Scriveva, allora, il filosofo: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e d’amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo a faccia a faccia? Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi a un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Avevamo augurato a Françoise di morire. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi sa se non ci è domandato di custodire e adorare un’ostia in mezzo a noi. Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine della fede».

È, questo, un aspetto – non certo la pienezza – dello sguardo religioso sul mistero sconcertante del soffrire e del morire, che sono la nostra carta d’identità di creature. Ora, secondo la concezione cristiana, Dio decide di partecipare proprio a questo limite drammatico e lo fa attraverso il Figlio suo, Gesù Cristo, che s’incarna condividendo l’esperienza della finitudine creaturale: «Il Verbo si fece carne», si proclama nel Vangelo di Giovanni (1,14). Dio entra, perciò, nel nostro status, provando la tensione della libertà (le tentazioni), scoprendo il sapore del dolore fisico e delle lacrime, sperimentando l’odio e la solitudine e persino il silenzio di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), giungendo fino al punto di morire, varcando in tal modo una soglia “impossibile” per Dio, che è per definizione eterno e infinito. Tuttavia Cristo non cessa di essere Figlio di Dio ed è per questo che egli, attraversandole, depone nella nostra sofferenza e nella nostra morte un seme di luce e di vita È ciò che si compie nella sua Pasqua, sorgente e principio della vita umana liberate e gloriosa.

È per questo che il cristiano – e don Gnocchi ne è un emblema luminoso – di fronte al dolore deve imboccare la via della condivisione e dell’amore. È ciò che aveva intuito anche uno scrittore “laico” come Ennio Flaiano quando, in un suo progetto di sceneggiatura, immaginava che Cristo ritornasse sulla terra e venisse assediato dai malati imploranti la guarigione. Ma – e qui si rifletteva l’autobiografia dell’autore che aveva una figlia gravemente disabile – «un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami. Gesù baciò la ragazza e disse: In verità, in verità vi dico: quest’uomo ha chiesto ciò che io posso veramente dare».