Lo straniero II. Welcome to the visitor

Se il sé – la parte profonda dell’io – è veramente un altro – l’altro, allora il presupposto del dialogo interculturale dovrebbe risiedere nella convinzione secondo cui – mutuando dal linguaggio levinassiano – il volto dello straniero è prezioso al nostro sguardo (empatico), ha senso e dunque dignità, poiché ci rispecchia, ci ri-guarda, ci rappresenta, ci ridona l’essere stranieri a noi stessi, permette di riconoscerci, di ri-conoscere la nostra stranierità: “Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi (…) perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Lv 19,34) – come è narrato anche nello splendido libro di Ruth, l’extracomunitaria (diremmo oggi) il cui sangue di bisnonna scorrerà nelle vene del pronipote Davide, Re d’Israele e figura messianica.

Significativo in tal senso – e duro – è il film Nuovomondo, mentre produce ancora un forte effetto sugli studenti – quasi spaventandoli, ammutolendoli – sia la lettura dei racconti sui naufragi delle navi italiane colme di emigranti, sia la presunta Relazione scritta nell’Ottobre del 1912 dall’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, soprattutto quando si rivela agli studenti che oggetto della stessa sarebbero stati gli italiani immigrati in America. E’ necessario quindi, per stemperare questa loro reazione, riprendere sempre il tema ascoltando la canzone di Bob Dylan I pity the poor immigrant o leggendo il discorso di Obama [http://bit.ly/1IQMat6] sugli Stati Uniti d’America quale “nazione di immigrati”.

Lo scopo ed il fine del dialogo interculturale, di conseguenza, dovrebbe consistere nell’amare il prossimo (il forestiero di Lv 19,34) come se stessi, e quindi nell’amare nel prossimo – straniero (hospes) o nemico (hostis) che sia – se stessi, la parte profonda di sé, la propria stranierità che, appunto, stranisce. A dire ad essa Welcome, benvenuta! A fare prossimo l’Io al Sé mediante l’Altro: accoglierlo. Letteralmente. Come nel caso del buon samaritano (Lc 10,27.36), andare nei pressi dell’altro per coglierlo, delicatamente. Per tollerarlo e compatirlo, nel senso (sempre etimologico) di portarlo su di sé – supportarlo e non sopportarlo! – con i suoi bisogni socioeconomici (povertà e fame) e di con-sentirlo nei suoi disagi giuridico-politici (diaspore per guerre e discriminazioni) e psicologico-spirituali (angoscia del distacco e desiderio di riconoscimento). In definitiva, riconoscerlo nella sua ricerca di una vita migliore e nel suo desiderio di un futuro, di un aldilà che sia già in parte qua.

Ciò significa, afferma don Colmegna, farsi ferire dall’altrui ferita, tentare di avere lo stile di Gesù (Mt 25,35.43), edificarsi come una soggettività ospitale (Levinas), ossia capace di ospitare lo sfollato, il rifugiato, l’esiliato proprio nel suo essere un visitatore non invitato, un ospite inatteso. Sempre prestando attenzione a non confondere la motivazione giudaico-cristiana (Lv 19,34; Mt 25,35) dell’ospitalità con quella greco-pagana, la quale consisterebbe diversamente nella convinzione che accogliendo l’ospite si accoglie il Sacro – affascinante ma terribile – evitando così anche di incorrere nella sua possibile ira…

Certo, le difficoltà (emozionali) che si sperimentano nel passare da un atteggiamento di chiusura diffidente ed isolamento fortificato ad uno di abbattimento dei bastioni ed apertura fiduciosa, nonché i limiti oggettivi alle soluzioni (razionali) del problema, sono molteplici. Studi e comparazioni dovrebbero essere affiancati da creatività ed immaginazione, nella certezza però che un’immagine ed un concetto proveniente dall’oriente contenga  molta, se non tutta, la verità. Quella semplice.

Secondo una fiaba cinese, infatti, la vita nell’aldilà dipenderà dall’accorgersi (o meno) che l’Io possiede un quid che se viene utilizzato in modo egolatrico rinchiude sé e gli altri in una situazione infernale, quando invece sarebbe sufficiente utilizzarlo in funzione dell’altro per trasformare ogni luogo spento e morto in un’oasi viva e colorata. A buon intenditor poche parole…

 

sergioventura@cortiledeigentili.com