L’ateismo ‘mistico’ di Fabrizio De Andrè

Passeggiare di sera tra i viali della Città Universitaria presenta sempre un certo fascino. Ora – da semplice visitatore -, come allora – studente di diritto. Senza la folla diurna, le grandi costruzioni razionaliste del primo Novecento evidenziano ancor più quanto sono piccoli i pochissimi che all’imbrunire le costeggiano. Il vociare mattutino è sì venuto meno, ma è ancora sufficientemente chiaro alla mente da permetterci di gustare la differenza del silenzio. Il silenzio come ‘différance’. Il non dicibile come traguardo ultimo della Sapienza: quella della Minerva – posta al centro della polis – e quella Divina – situata sulla frontiera.

Due sapienze che di solito differiscono. In superficie – o da quell’alto da cui speriamo custodiscano i nostri passi. Nel sottosuolo, invece, la loro contaminazione è in atto. Due fuochi fatui ne segnalano la traccia. La seguiamo. Ci conduce sottoterra, laddove mistica e ateismo danzano insieme. Nella cripta dei gesuiti. Qui si sazia l’interiorità non meno del corpo. L’ascolto oltre la vista. Nel primo anello, infatti, un invitante percorso gastronomico tra le tradizioni regionali permette di (ri)conoscerci nella nostra essenziale diversità. Superate le colonne, poi, si accede al rito. Seduti su comode poltroncine verdi, abbiamo assistito, circondati da studenti provenienti da ogni dove, allo spettacolo musicale curato da Luca Baccolini e Giulio Zannoli della Rete Loyola di Bologna. Voce e chitarra di rara intensità ed armonia, accompagnati dal commento discreto di padre Hernandez. L’ospite evocato? Fabrizio De Andrè e la ‘sua’ Buona Novella. Sold out assicurato e meritato.

Non si è trattato, però, di “ ‘battezzare’ “ il cantautore genovese, bensì di “chiedere aiuto, a chi forse non è credente” (J.P. Hernandez). Mettere un non credente in cattedra dunque: paradosso tipico del cristianesimo. Cosa aspettarsi, d’altronde, dagli eredi del compianto cardinal Martini, l’ideatore della Cattedra dei Non Credenti? Ecco allora che sentiamo riconoscere con onestà come De Andrè abbia pensato che Gesù “non sia servito a molto perché il male dalla terra non fu tolto”, reputandolo invece “come Dio passato alla storia”. Eppure, nonostante una divinità decostruita dalla ingombrante presenza del Male nel mondo, come non sussultare di fronte a quell’“inumano è pur sempre l’amore di chi rantola senza rancore, perdonando con l’ultima voce chi lo uccide tra le braccia di una croce” (Si chiamava Gesù)? Non deve sorprenderci perciò – ricorda padre Hernandez – che nel romanzo ‘Un destino ridicolo’ De André affermi: “in questa infinità gratuità intravedo quello che ho sempre cercato nell’anarchia: una libertà assoluta, incomprensibile ed estranea alle nostre spiegazioni, qualcosa che mi viene spontaneo chiamare Dio”.

Gratuità, anarchia, Dio: “Ciò che [Dio] significa è irrappresentabile, il senza-Inizio, l’anarchia” (Levinas, 1996). Ed in un accavallarsi caotico di emozioni Luca e Giulio, ben sostenuti dalle immagini del ‘Vangelo secondo Matteo’ di Pasolini, hanno cantato ‘L’infanzia di Maria’, ‘Il ritorno di Giuseppe’, ‘Il sogno di Maria’ ed ‘Ave Maria’. Piccole poesie, scritte da De André a partire dai Vangeli Apocrifi. ‘Midrashim’ – racconti – sulla bella umanità di Gesù, per De Andrè “il più grande rivoluzionario della storia”; tanto più significativi, in quanto scritti in un’epoca nella quale, sottolinea padre Henrandez, “la Chiesa e la predicazione popolare presentavano ancora un Gesù ‘irraggiungibile nella sua aulica divinità’”. Siamo in pieno Cortile dei Gentili: il cantautore genovese attira l’interesse del non credente verso l’uomo Gesù, mentre aiuta il credente a riscoprire l’umanesimo di Gesù oltre e prima quello fantasmagorico che ci possiamo essere creati o a cui ci hanno educati.

Tutto questo però, direbbe Bonhoeffer, non può che avvenire ‘a caro prezzo’. La Croce, infatti, è ciò che rende la Grazia una grazia non ‘a buon mercato’. Lo spettacolo cambia tono. Nei primi versi de ‘Il Testamento di Tito’ Luca si commuove, sospira le parole. Veniamo tutti messi di fronte ai ‘poveri cristi’, ai ‘crocifissi’ della Storia (compresa quella ecclesiale). Qui l’ateismo di De André si rivela essere paradossalmente evangelico, come quello dei primi cristiani rispetto alla religio romana: distrugge le false immagini di Dio, Lo purifica dai molteplici idoli del ‘Come Dio comanda’. Non a caso molti anni dopo – ci fa notare padre Hernandez – De André sostiene in ‘Creuza de ma’ che “a montare l’asino è rimasto Dio, il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido”. Gesù, infatti, entrò a Gerusalemme su di un asino. Per chinarsi sulle ferite dell’uomo. Fraternamente, “una nuova indulgenza insegnò al Padre Eterno”. Sì, come ricorda la tradizione ebraica, Dio impara dagli uomini, si fa toccare da loro, cambia per loro.

E mentre le provocazioni suggerite agitano ancora i nostri pensieri, si rincorrono veloci i brani ‘Maria nella bottega d’un falegname’, ‘Via della Croce’, ‘Tre madri’ e l’intramontabile ‘Il testamento di Tito’; tratteniamo il fiato sino a quel troppe volte dimenticato finale che canta la preminenza dell’Amore (nel dolore) sulla Morale (del dolore): “nel vedere quell’uomo che muore, madre, io provo dolore, nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”.

Ecco perché De Andrè ripete in un finale parossistico: “non voglio … non posso … non devo … pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo”. Sembra essere il triplice credo di un cantante ‘blasfemo’ e ‘demoniaco’, quando invece ‘figlio dell’uomo’ è il titolo messianico più diffuso nei Vangeli …

sergioventura@cortiledeigentili.com

Bibliografia:

Lévinas Emmanuel, Dio la morte e il tempo, Jaca Book, p.274.