Intervista con Paul Knitter

Paul Knitter, teologo, è professore di Teologia allo Union Theological Seminary di New York, cattedra Paul Tillich, ed è tra i maggiori sostenitori di un dialogo interreligioso. Autore dell’importante: No Other Name? del 1985.

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Professor Knitter, lei ha affermato in un suo scritto che la teologia può svolgere un duplice ruolo, parlando in particolare delle relazioni islamo-cristiane. Da un lato, essa può dividere, aggravando le realtà politiche ed economiche, diventando uno strumento a servizio del terrorismo e della violenza. Dall’altro lato, la teologia può servire una causa più grande, ovvero quella della riconciliazione e della pace. Quale causa crede abbia seguito, nel contesto di Ratisbona, il discorso teologico di Ratzinger?

 Purtroppo, e questo mi pare è evidente dalle reazioni in diverse parti del mondo, anche se non intenzionalmente, il suo discorso ha alimentato il conflitto tra Cristianesimo e Islam. Egli non intendeva provocare tutto ciò, ma i risultati sono stati questi. Un conflitto basato ancora su una teologia del supersessionismo. Perciò, la sfida principale per la teologia cristiana – voglio parlare soltanto della teologia della mia chiesa e della mia comunità – è quella di sapere come sviluppare e ristabilire una teologia, una comprensione delle altre religioni che può mantenere, sostenere e promuovere un dialogo più efficace. Avendo questa prospettiva, ogni teologo o teologa deve impegnarsi per questa causa, aprendosi e mantenendo l’impegno per il vangelo, per il Logos e per lo Spirito universale.

Nel dicembre del 2009, circa tre anni dopo l’allocuzione di Ratisbona, lei è stato invitato a tenere una lectio magistralis sul tema “Islam e Occidente” nel centro intellettuale per antonomasia del mondo musulmano sunnita, l’Università di Al-Azhar del Cairo. Fu proprio davanti a quell’ateneo che vennero alzati striscioni in cui si definivano le parole di Ratzinger «un’estensione della guerra di Bush contro l’Islam». E furono gli ulema della stessa università a minacciare di chiudere la commissione per il dialogo con Roma. Leggendo il testo della sua conferenza – pubblicato come articolo col titolo Islam and Christianity sibling rivalries and sibling possibilities – stupisce il fatto che lei vada in Egitto come teologo cristiano e che parli in piena libertà dell’identità cristiana e musulmana, ritracciando anche gli elementi di comunanza tra le fedi abramitiche…

Si è trattato di un’esperienza unica e molto interessante. L’invito stesso si è rivelato una sorpresa. Quando sono arrivato al Cairo, precisamente all’università di Al-Azhar, ero in compagnia di altri teologi ed intellettuali americani e europei di religione cristiana. Abbiamo subito intuito una cosa: si trattava di un invito che ci era stato rivolto per criticarci. I sapienti musulmani erano pronti a fare delle obiezioni ai nostri discorsi, oppure alle nostre osservazioni circa i problemi che intercorrono tra Occidente e Oriente, tra Cristianesimo e Islam. L’atmosfera era abbastanza negativa. Ma attraverso le nostre allocuzioni, anche tramite i nostri tentativi di dialogo con i teologi musulmani, l’atmosfera è cambiata diventando positiva e intellettualmente stimolante. L’atteggiamento di riserva e di ostilità da parte dei sapienti musulmani nei confronti dei teologi cristiani è mutato nel momento in cui noi cristiani abbiamo riconosciuto lo stato nel quale i musulmani si trovano, ovvero quello di non essere rispettati e di essere minacciati. Noi abbiamo riconosciuto espressamente i danni creati dal potere dell’Occidente e del Cristianesimo dopo il crollo dell’Impero ottomano. È stato solo dopo esserci presentati con un atteggiamento di umiltà, facendo capire che eravamo andati in Egitto per maturare una comprensione reciproca, per intenderci meglio, che tutto è cambiato. Il volersi ascoltare reciprocamente è stato determinante. Dopo tre interventi tenuti da teologi americani, le chiusure iniziali si sono trasformate in aperture, lo spirito di ostilità in spirito di dialogo. Tra gli invitati c’era anche la storica delle religioni Karen Armstrong. Dopo aver ascoltato un intervento, Armstrong ha affermato che eravamo pronti a riconoscere un dato importante, ovvero che la realtà era cambiata. Questo riconoscimento è stato molto emozionante per me.

Se mi permette, stupisce anche un altro elemento. Malgrado l’attualità che la lectio di Ratisbona, nel bene e nel male, ha giocato nella discussione proprio in quegli anni, e trattandosi di un intervento sul tema del rapporto dell’Islam con il Cristianesimo, mi sorprende l’assenza di un riferimento a Ratisbona. Discutendo della singolarità ed unicità di Cristo, lei cita la Dominus Iesus, come testo elaborato dal «mio papa, Benedetto XVI […] quando era ancora il cardinale Joseph Ratzinger». Seguendo la logica della sua prolusione, si intuisce che il suo interesse, in quello spazio, fosse un altro. Tuttavia, nell’insieme la citazione del Discorso di Ratisbona avrebbe potuto trovare una collocazione, ma non è stato così. Professor Knitter, si è trattata di un’omissione volontaria e meditata?

 Questa domanda non è soltanto molto interessante ma è anche importante. Se così posso dire, mi ha spinto a fare un esame di coscienza. Direi che la mia è stata sicuramente un’omissione, ma non proprio meditata. Non volevo toccare un punto così tanto sensibile ed esplosivo come il Discorso di Ratisbona. Ciò nonostante, desideravo indicare il problema del supersessionismo – anche se alcuni, poco prima della presentazione, mi avevano consigliato di non entrare troppo in materia. Volevo indicare un fondamento teologico per il quale Ratzinger poteva utilizzare una citazione “brusca”. Volevo indicare questo fondamento teologico nella sua convinzione che l’Islam sia una religione inferiore e pericolosa. Per questo, ho presentato ai teologi e ai docenti musulmani il fondamento sul quale Ratzinger insisteva in passato, vale a dire quello dell’unicitas Christi, dell’unicità di Cristo, dunque di un’unicità nella sua rivelazione e salvezza. Questa è, secondo me, la ragione per la quale il papa aveva un atteggiamento negativo che, tra l’altro, lo ha spinto a citare quella frase di Manuele II Paleologo nei suoi Dialoghi. Si trattava di una motivazione teologica.

C’è un altro aspetto di questa omissione. Forse avevo inconsciamente paura di citare quel testo. Nell’università di Al-Azhar il clima, come ho già detto, era già abbastanza teso e inizialmente poca era la disponibilità al dialogo. Però, in questo istante, ascoltando e rispondendo alla sua domanda, faccio una considerazione. Credo che sarebbe stato meglio se avessi parlato dell’allocuzione di Ratisbona. Mi rimprovero di non averlo fatto!

Per quale ragione?

Perché si sarebbe trattato di un’altra dimostrazione di umiltà e di onestà. Una dimostrazione che io stesso – come tanti altri teologi americani e non – non sono d’accordo con quello che il “mio” papa ha detto nella città tedesca. Ad esempio, l’atmosfera è cambiata quando ho affermato chiaramente di non essere d’accordo con l’allora presidente americano George Bush. Quando ho detto questo e ho aggiunto che altri cittadini americani non erano d’accordo con la sua politica, tutto ciò ha mutato l’atmosfera. L’umiltà e l’onestà sono due elementi importanti per il dialogo interreligioso.

L’ultima domanda vuole condensare l’insieme di queste riflessioni. Cosa resta, per lei, di Ratisbona dieci anni dopo? Quali crede siano gli orientamenti da seguire per costruire insieme un mondo di pace e di giustizia, seguendo la chiamata – che lei riconosce come comune, malgrado le differenze – di Dio?

Si tratta di una domanda difficile, ma pratica. Rispondo con una citazione del Corano, tratta dalla Sura 5,48, e voglio commentare brevemente questo testo. Il passo in questione afferma: «Ad ognuno di voi, dice Allah, abbiamo assegnato una via o un percorso. Se Allah avesse voluto avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone. Tutti ritornerete ad Allah ed egli vi informerà sulle cose sulle quali siete discordi». Questa è una raccomandazione molto pratica. Le religioni devono mettere da parte le loro insistenze sulla superiorità, di autorità e devono cominciare a cooperare insieme nelle cose che sono importanti per tutta l’umanità. Le religioni devono collaborare per affrontare la minaccia rappresentata dall’ingiustizia, dalla povertà o dal problema ecologico. Sono problemi che necessitano della cooperazione di tutte le tradizioni religiose dell’umanità. Il dialogo interreligioso non deve cominciare dalle diverse teologie, ma dall’amicizia solidale. Attraverso la solidarietà, sul suo fondamento, le religioni possono entrare anche nel discorso teologico, ma prima di tutto occorre dialogare per l’umanità. Papa Francesco ha chiamato tutte le religioni a cooperare per la salvezza del mondo. Noi uomini dobbiamo “gareggiare” in opere buone. Possiamo mettere da parte le domande teologiche per affrontarle in un secondo momento. La mia speranza è che comportandoci in questa maniera possiamo andare oltre il Discorso di Ratisbona, però seguendo l’intuizione e la direttiva di Joseph Ratzinger. Questa direttiva ratzingeriana consiste in un dialogo tra le religioni, radicato profondamente nella ragione e in un’etica comune per il benessere di tutti. 

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di Gabriele Palasciano