Intervista con Paul Knitter* su Ratisbona

Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” e questa intervista sono a cura di Gabriele Palasciano. 

[…]

Professor Knitter, il breve tratto di strada che ci accingiamo a percorrere in questa intervista è pieno di complessità. La polisemia della parola è evidenziata dalla semiotica. Possiamo immaginare anche quale sia la ricchezza di significati e di interpretazioni che presentano addirittura delle frasi o dei testi. Nel nostro caso, pensiamo a un discorso teologico, di alto spessore intellettuale, e scritto da un teologo del calibro di Joseph Ratzinger. Quanti significati ha racchiuso e quante interpretazioni contrastanti sono state date del Regensburger Rede! Dopo gli attentati di Parigi, diversi intellettuali europei hanno auspicato una rilettura critica di quel testo… È avvenuta la stessa cosa in America?

Per quanto mi riguarda, a dire il vero, non ho constatato la presenza di una riflessione sul Discorso di Ratisbona. Tantomeno ho colto la presenza di un orientamento della discussione pubblica in questa direzione. Negli Stati Uniti non si parla molto dell’allocuzione di Benedetto XVI. Al centro delle discussioni si trova soprattutto il tema delle prossime elezioni presidenziali. Si legge molto sui giornali circa la minaccia rappresentata dall’Islam, che è avvertita in maniera molto forte. Tengo a sottolineare questo punto: non si ha paura tanto del terrorismo di matrice islamica quanto dell’Islam in sé.

Qualche tempo fa, una docente di teologia comparata dell’Università di Cambridge mi confessò il proprio scetticismo sull’efficacia e sulla positività di una rilettura del testo di Benedetto XVI. Lei crede che interrogarsi proprio su quel documento dopo un decennio, ovviamente in maniera critica, rappresenti un tentativo di riaprire vecchie ferite oppure lo ritiene qualcosa di positivo?

 Sono convinto che ritornare ad una lettura critica di questo testo rappresenti qualcosa di positivo. Lo ritengo importante perché le ferite sono ancora presenti e dobbiamo considerarle attentamente. Si tratta di ferite storiche, economiche e politiche tra Islam e Cristianesimo, tra Oriente e Occidente. Esse hanno contemporaneamente delle radici storiche e teologiche. Direi che queste ferite affondano le loro radici in una teologia pericolosa. Quest’ultima, a sua volta, non le cicatrizza ma le mantiene aperte, creando ancora più dolore. Per tale ragione, sono del parere che sia importante interrogarsi specialmente su questa riflessione teologica che provoca le ferite economiche, politiche e culturali. Aggiungerei che la teologia gioca un ruolo importante e indiscutibile nel rapporto tra Cristianesimo e Islam.

Cosa ha rappresentato e tuttora rappresenta per lei il Discorso di Ratisbona?

Personalmente ritengo che il discorso di Joseph Ratzinger rappresenti un orientamento, o se vogliamo una tendenza tipica di alcuni teologi, e che consiste nell’individuare e nell’evidenziare la presenza di elementi negativi nelle altre tradizioni religiose, e quella di elementi positivi nella propria religione. Forse si tratta di un processo che si verifica inconsciamente. In questo caso, Ratzinger accentuava la necessità per la teologia cristiana di conciliare fede e ragione. La fede e la ragione devono essere d’accordo. Fides et ratio non possono contraddirsi. Questo è un elemento centrale non tanto nella teologia protestante quanto, invece, in quella cattolica e anglicana. Tuttavia, occorre riconoscere che nella teologia musulmana esiste la possibilità – oppure addirittura, secondo alcuni, il pericolo – che la sovranità di Dio possa trascendere la ragione umana fino al punto di contraddirla. I musulmani accentuano molto la superiorità, la trascendenza e il mistero di Dio. Lo fanno in una maniera tale da indurre molti teologi musulmani a riconoscere che questa trascendenza può andare al di là della nostra capacità di comprensione. È a questo aspetto che Ratzinger si riferiva nel suo discorso. Però mi chiedo come mai lui, che pure non è un esperto di teologia musulmana come, del resto, non lo sono neanch’io, non abbia fatto riferimento neppure minimamente ad un movimento della storia dell’Islam che ha accentuato l’importanza della ragione umana. Si tratta del mutazilismo. A partire dal IX secolo e fino alla loro scomparsa nel XIII secolo d.C., i teologi mutaziliti insistevano sulla conciliazione e sull’accordo tra ragione e fede. La mie domande sono categoriche: perché il papa non ne ha parlato? Perché non ha riconosciuto questo aspetto, questo fatto storico della teologia musulmana? Tutto ciò mi induce a pensare che siamo di fronte ad una dinamica tipicamente umana, e che consiste nel riconoscere e nel mettere in risalto quanto di positivo c’è nella propria tradizione religiosa, ad essere più aperti e disponibili nel proprio mondo religioso. Invece, sottolineiamo gli elementi negativi presenti nelle altre religioni. In questo caso, mi pare proprio che il papa si è rivelato un essere umano come noi tutti.

Quali domande sono affiorate nella sua mente durante la sua lettura?

Dal mio punto di vista, la domanda principale riguarda un tema molto difficile e delicato. Leggendo il Discorso di Ratisbona, soffermandomi in modo particolare su alcune sue parti, ho pensato al ruolo che la supremazia religiosa o una concezione supersessionista continua ad avere nel discorso teologico – e forse anche nei rapporti politici tra cristiani e musulmani. Mi soffermo sulla parola “supremazia”. Negli Stati Uniti parliamo spesso di supremazia “bianca” oppure “culturale”. Cosa voglio dire applicando questo concetto al Cristianesimo e all’Islam? Voglio evidenziare il fatto che siamo di fronte a due tradizioni religiose che possiamo descrivere principalmente come supersessioniste. Sono consapevole di utilizzare un termine molto forte, e voglio farlo con cautela. Circa cinquant’anni dopo la morte di Gesù, il Cristianesimo ha creduto di essere il compimento dell’Ebraismo, ovvero di sostituirlo. La religione cristiana percepiva se stessa come il “nuovo Israele” che rimpiazzava il vecchio popolo di Dio. Successivamente anche l’Islam ha creduto di essere il compimento dell’Ebraismo e del Cristianesimo. Siamo in presenza di una teologia della sostituzione. Quindi tutte e due le religioni credono direttamente, implicitamente o non intenzionalmente che per volontà di Dio la propria religione è esclusiva, principale e finale. Per i cristiani, Gesù è l’unico Figlio di Dio. Per i musulmani, Muhammad è il sigillo della profezia, l’ultimo dei profeti. Dunque, i cristiani e i musulmani si comportano con questo atteggiamento, ovvero di credere di essere, secondo la volontà di Dio, la religione superiore e suprema. Anche quando non usano tali espressioni, il loro atteggiamento o la loro disposizione interiore è questa. Tutto ciò influisce sul modo di comportarsi di fronte alle altre religioni. Un tale atteggiamento influisce tremendamente sul nostro rapporto con gli altri. Mi pare che proprio l’atteggiamento di supremazia giocasse un ruolo principale nella maniera in cui Ratzinger si è approcciato all’Islam. Dunque, si è in presenza di una questione molto difficile perché tratta della cristologia e della profetologia. Per me, come per altre teologhe e per altri teologi cristiani, tutto ciò rappresenta una sfida. La cristologia è una sfida. La sfida è quella di comprendere l’identità e il ruolo di Gesù, di essere fedeli alla rivelazione centrale e universale ricevuta in Cristo e, allo stesso tempo, di rimanere attenti e aperti a quello che lo Spirito sta attualizzando e rivelando nelle altre religioni. Noi dobbiamo cogliere e confrontarci con questa sfida per poter avanzare nel dialogo con l’Islam e con le altre religioni. Ciò vuol dire che dobbiamo ancora di più prendere sul serio la domanda che Gesù ha rivolto ai suoi discepoli a Cesarea di Filippo: Voi chi dite che io sia? […]

>> Versione integrale del testo

*Paul Knitter, teologo, è professore di Teologia allo Union Theological Seminary di New York, istituzione affiliata alla Columbia University. È tra i maggiori teologi del pluralismo religioso a livello mondiale, nonché il padre del pluralismo teologico.