Intervista a Hans-Christoph Askani: parlare di Dio nella postmodernità. Una prospettiva cristiana.

Hans-Christoph Askani, teologo protestante luterano, è nato a Stoccarda nel 1954. Ha studiato teologia protestante, filosofia e letteratura tedesca nelle Università di Tubinga, Zurigo, Parigi e Berlino. Ha conseguito un dottorato in filosofia del linguaggio ed è stato assistente del noto teologo protestante Eberhard Jüngel. Pastore della Chiesa evangelica luterana del Württemberg, in Germania, dal 1994 ha insegnato teologia fondamentale all’Istituto protestante di teologia di Parigi, centro del quale ha assunto in seguito la direzione in qualità di decano. Nel 2005 è stato nominato professore ordinario di teologia fondamentale all’Università di Ginevra. Ha inoltre insegnato nelle Università di Zurigo e di Friburgo, in Svizzera, all’Institut Catholique di Parigi e all’Università di Strasburgo, in Francia. Impegnato nel dialogo ecumenico, in particolare in quello tra cattolici e protestanti, è membro del Gruppo di Dombes. I suoi campi di interesse spaziano dalla teologia all’ermeneutica, dagli studi giudaici all’antropologia filosofica e teologica, fino ad arrivare al rapporto tra teologia e scienze umane. Oltre a numerosi articoli e contributi scientifici in francese e in tedesco, si ricordano tra le sue pubblicazioni: Das Problem der Übersetzung dargestellt an Franz Rosenzweig, Mohr-Siebeck, 1997; Schöpfung als Bekenntnis, Mohr-Siebeck, 2006.

Professor Askani, Dio e la postmodernità: come definirebbe brevemente due nozioni così complesse?

Comincio con la postmodernità, che si comprende in relazione alla modernità. Forse è possibile dire che la postmodernità è la modernità stanca e un po’ delusa da se stessa. Se l’uomo moderno è caratterizzato da un certo ottimismo, da un entusiasmo in vista di un progresso possibile per il mondo, da una coscienza forte della razionalità, l’uomo postmoderno non vi crede più o, in ogni caso, non vi crede nella stessa misura. Al posto della convinzione che l’essere umano possa operare con le proprie forze per dar vita ad un nuovo mondo, si è installata la delusione. I progressi contribuiscono ai disastri. L’uomo cerca di fabbricare il suo mondo secondo i suoi bisogni e lo distrugge. La mancanza di fiducia rispetto al futuro ha condotto ad una perdita di orientamento in ogni ambito. Sul piano della religione, si può indicare come caratteristica della postmodernità l’affermazione secondo la quale tutte le credenze sono ammesse ma che nessuna credenza è evidente.
Per quanto riguarda Dio, com’è possibile definirlo? Non si può veramente definire Dio. Un’antica frase lo dice: “Dio non si lascia definire”. Per quale ragione? Perché definire significa circoscrivere, limitare, schematizzare e, in una certa misura, anche controllare. Qui sorge un’altra domanda: tutto questo implica anche il fatto che non si possa dir nulla di Dio? No, perché Dio si è definito Lui stesso, ha iniziato una storia con il mondo e con l’essere umano. Secondo la nostra fede, la fede cristiana, Dio ha eletto un popolo per vivere con Lui e con il quale ha stipulato un’alleanza. Dunque Egli non si lascia mai definire nel senso di “circoscrivere”, ma secondo la fede cristiana è un “alleato” lungo il cammino della vita. Dio è vivente, interessato, sensibile alla condizione umana e implicato nella condizione umana. Dio parla e desidera che l’uomo parli con Lui. Questo mi sembra importante se si vuole definire chi è Dio.

Oggi la fede in Dio è percepita come una questione banale ed insignificante. Può la fede ritrovare oggi la sua forza e la sua pertinenza?

È vero che per molti dei nostri contemporanei la fede in Dio, l’esistenza di Dio etc. sono percepite come qualcosa di trascurabile. Nello stesso tempo, gli uomini e le donne della nostra epoca hanno anche delle preoccupazioni che superano le preoccupazioni quotidiane; e se essi incontrano delle espressioni religiose nella letteratura, nel cinema, nella musica, tutto ciò gli parla. Ciò che non dice più nulla alla maggior parte dei nostri contemporanei sono le formule classiche, stabilite, le eterne ripetizioni delle stesse frasi o degli stessi concetti. È lì che la teologia e che le nostre Chiese si confrontano con la vera sfida della nostra epoca, ovvero: come esprimere, oggi, ciò che è tuttora di grande attualità per ciò che riguarda la posta in gioco della fede, per ciò che riguarda Dio, per ciò che riguarda le questioni perturbanti della vita umana?

L’impossibilità a credere dell’uomo postmoderno deriva dal fatto che vive in una realtà “a una sola dimensione”, come diceva il filosofo tedesco Herbert Marcuse?

Recentemente, quando ho voluto incoraggiare una delle mie figlie a lavorare e ad impegnarsi di più a scuola, lei mi ha detto: “Non voglio vivere in questa maniera. Non voglio vivere lavorando dalla mattina fino alla sera a scuola per entrare all’università; lavorando dalla mattina alla sera all’università per avere un’occupazione; lavorare dalla mattina alla sera nella mia occupazione per arrivare alla pensione e non sapere più cosa fare”. Credo che la ragazza abbia colto qualcosa di importante: l’uomo postmoderno ha la tendenza a ridurre la realtà “a una sola dimensione”, come Marcuse ha sottolineato. Questa dimensione può avere diversi nomi, ma la realtà è comunque la stessa: il successo, il denaro, la crescita, il progresso, il piacere. Tutti questi valori hanno una caratteristica comune. Infatti, a prima vista appaiono come convincenti, mentre poi appaiono come vani e inconsistenti. A volte ho l’impressione che uno lavori “come un matto” per non chiedersi più: perché? Qual è lo scopo che voglio raggiungere con il mio lavoro? Qual è lo scopo della mia vita? Così, si esclude tutto quello che supera questa realtà “unidimensionale”. I grandi interrogativi sono esclusi: la malattia, la debolezza, la morte, la felicità, il riconoscimento reciproco, l’avventura della vita umana condivisa, lo sguardo di un Altro essere che ha bisogno dell’uomo e che va al di là di ogni calcolo, di ogni ricompensa, al di là di ogni utilità, e che guarda e si interessa all’uomo.
Per riprendere la domanda iniziale, direi dunque che l’impossibilità o meglio l’incapacità di credere dell’uomo contemporaneo deriva dal fatto che egli tenda a vivere in una realtà “monodimensionale”. Ma forse, nello stesso tempo, occorre pensare nel senso inverso: il fatto che l’uomo viva in una realtà “monodimensionale” non viene proprio da ciò che egli esclude dalla sua vita, dal suo mondo, dal suo orizzonte, la sfida, il dono, l’apertura di ciò che chiamiamo “la religione”?
In questo modo otterremmo una definizione molto basilare, quasi minimalista, eppure essa parla della religione: avere una religione, essere religiosi significa, in questo senso, ammettere il superamento della “monodimensionalità”, osare e vivere l’apertura di orizzonti non ammaestrabili.

A proposito della pertinenza della fede in Dio nella postmodernità, dinanzi a un mondo che dubita della sua esistenza, quali ragioni si possono addurre?

Ciò che non si può fare e che non si deve assolutamente fare, è ripetere semplicemente le antiche verità della fede cristiana. Tuttavia, negli scambi e nelle relazioni personali, è possibile far notare ai nostri contemporanei che in fondo alle loro esistenze giacciono delle domande, delle preoccupazioni, delle aspirazioni che, a causa della mania della “fattibilità” – di quel “noi possiamo far tutto”, che costituisce una convinzione fondamentale –, non trovano nessuna risposta. Si può far comprendere che il messaggio cristiano, il messaggio biblico, contiene una ricchezza sorprendente a livello di esperienza di questa dimensione dell’esistenza. Si tratta di un’esperienza che sfugge all’onnipotenza umana. Per esempio, la speranza, l’esperienza di un male che pesa sulla persona, la pietà come dimensione della vita, il fatto che la sofferenza altrui – contro ogni attesa e contro ogni razionalità – diventi anche la mia. Ogni essere umano, mi sembra, può comprendere che le vere sfide della vita si situano anche su questo piano.
Esistono molte testimonianze di persone che, arrivate alla fine della loro vita, tornano ad esaminare il loro passato. Raramente qualcuno dice: mi dispiace non aver svolto la mia carriera con più energia, con più successo. Al contrario, si rimpiange spesso di “non aver dedicato più tempo a mia moglie, a mio marito, ai miei figli, ai miei amici”. In altre parole, si rimpiange di “non essersi lasciati s-postare, di-rottare… ”. La fede, la quale si integra e nello stesso tempo non si integra nella nostra vita, è lo spostamento più grande che conosco.

Christopher Hitchens, Richard Dawkins, Piergiorgio Odifreddi sono degli scrittori che accusano la religione di avvelenare l’essere umano e di impedire l’esercizio critico della ragione. Qual è l’origine di questa percezione diffusa nella nostra società?

Per prima cosa, credo che si dovrebbero leggere i libri di questi tre autori e si dovrebbe conoscerne bene il contenuto, altrimenti si rischia di non rendergli giustizia. Detto questo, penso che per tutti e tre esista un comune denominatore. Questo elemento comune, che mi sorprende un po’, consiste in un’immagine molto banale della religione e in un ottimismo molto ingenuo riguardo alla ragione umana. La razionalità moderna funziona così bene, riscuote dei successi incontestabili in molti ambiti, perché si è sottomessa ad una restrizione radicale. Coloro i quali non seguono questa razionalità del calcolo non esistono. Tutto ciò che non si lascia controllare da questa razionalità umana non esiste: dunque, né gli interrogativi insolubili, né le catastrofi umane del XX secolo, né la felicità infinita di fronte a un neonato, né la sofferenza, né la morte. Ebbene, queste realtà sono marginalizzate. Sorge così una domanda: un approccio che esclude questi eventi e questi temi è ragionevole? Personalmente, non credo proprio. Non esiste solo una razionalità del successo, della tecnica, del commercio, ma c’è un’altra razionalità – di cui l’essere umano è il “luogotenente” – che riconosce gli interrogativi che superano l’uomo, che lascia un posto a queste domande. La fede e la religione comprendono qualcosa di questa dimensione, ed ho l’impressione che gli autori che lei ha citato non lo abbiano afferrato.

Il matematico Piergiorgio Odifreddi, professore all’Università di Torino, che ha avuto l’onore di ricevere una lettera di risposta da papa Benedetto XVI al suo libro Caro papa ti scrivo(ed. Mondadori, 2011), sostiene di non avere bisogno della fede in Dio per comprendere il mondo e la realtà, e che pertanto solo la visione “scientifica” delle cose e della stessa realtà ha per lui importanza. Questa è anche la convinzione di altre persone. Cosa ne pensa?

È vero che le scienze e l’uomo del nostro tempo non hanno bisogno di Dio per comprendere il mondo. Forse la domanda è un’altra: in questo modo, quale mondo l’uomo moderno avrà compreso? Secondo una logica evidente, e nello stesso tempo costringente e preoccupante, questo mondo non può essere nient’altro che il mondo che l’uomo stesso ha costruito. Infatti, l’uomo comprende quello che ha costruito con le proprie mani (almeno fino ad un certo livello). Ma il mondo non è qualcosa di più ricco e di più grande? Il mondo non è un’altra “cosa”? Ciò che ci circonda, ciò che ci precede, ciò che ci supera, ciò che ci fa vivere e ci pone di fronte a domande più grandi di noi? A questo punto una formula così antica – e che sembra superata – come “Dio ha creato il mondo” si rivela in una dinamica inaspettata, sorprendente. Una dinamica che fa saltare in aria i nostri schemi di pensiero, che relativizza la nostra ossessione di voler ammaestrare tutto, che ci libera dal “dovere” che l’uomo moderno ha fatto suo: essere il signore dell’universo e di se stesso.
Uno dei miei maestri, il famoso teologo Eberhard Jüngel, diceva: “Dio non è necessario, Dio è più che necessario”. In effetti, se Dio è ridotto a ciò di cui l’uomo ha bisogno per migliorare le sue costruzioni o realizzazioni tecniche o scientifiche, allora Dio non è necessario. Ma questo non è Dio. Dio non entra nello schema delle costruzioni umane poiché appartiene ad un’altra dimensione che il professore di Tubinga ha caratterizzato con quel “più che necessario”. La questione fondamentale è sapere se l’uomo condivide la sua vita con questo Dio, questo Dio che supera i suoi bisogni, oppure se egli si accontenta di vivere secondo le coordinate da lui stesso costruite. Questa sarebbe una grandissima differenza.

Lei ha ricevuto una formazione molto ricca e conosce molto bene la realtà del Cristianesimo in Europa. A suo avviso, l’annuncio cristiano dovrebbe seguire un orientamento preciso allo stato attuale, dove si assiste ad un ridimensionamento del numero dei cristiani nei cosiddetti paesi di “vecchia evangelizzazione”?

Non credo si possa definire un orientamento preciso perché questo dipende sempre dalle situazioni. Però, è possibile dire due cose circa la testimonianza cristiana. Da un lato, si deve evidenziare il valore dell’onestà. Infatti, non ha senso voler fare dei compromessi con i gusti e con le mode della nostra epoca per poter meglio esprimere la nostra fede. Dall’altro lato, occorre realizzare un grande lavoro di traduzione della fede cristiana. Ciò significa non volersi accontentare soltanto delle formule già acquisite nel corso della storia e che si ripetono costantemente. La questione è sapere se i teologi e la Chiesa riescono a tradurre il messaggio cristiano in nuovi termini, in parole e concetti che non sono stati sempre utilizzati ma che comunque non tradiscono l’eredità cristiana. Per me questa è la vera sfida.

di Gabriele Palasciano