Il Giudizio II. Scopi e presupposti…

Fine o scopo del giudizio definitivo e rieducativo – agli occhi di chi lo pratica – è il raggiungimento di una giustizia (non oltremodo afflittiva) di tipo salvifico. Se però nel caso della sanzione rieducativa tale scopo è la costruzione di un ponte gettato sopra la frattura sociale prodotta dal reato, nel caso della sanzione definitiva il fine, invece, è quello di tagliare i ponti con qualcuno – spesso ormai ridotto a qualcosa – reputato estremamente pericoloso per la società.

Nel primo caso l’accento verrà posto sulla persona del colpevole, cercando di recuperarla, reinserendola e reintegrandola – rinnovata – nella società. Ovviamente, onde evitare quei buonismi dannosi per le loro drammatiche ricadute sociali (non è un caso che come il volto di Gesù nell’ascesa a Gerusalemme apparve duro – Lc 9,51, tale sia apparso quello di alcuni degli angeli delle carceri citati), è necessario che in questo percorso di risocializzazione del reo si presti bene attenzione a tre momenti non scontati del processo rieducativo. La presa di coscienza da parte del colpevole del male compiuto, un pentimento coerente con tale riconoscimento e, affinché la riconciliazione sia piena, quella che un tempo veniva chiamata espiazione, ossia la riparazione dei danni provocati. Estremamente significativi in tal senso sono il classico The mission e il più recente Sette anime.

Nel secondo caso, l’accento verrà posto sul bene comune della società, cercando di proteggerla, salvaguardarla, metterla in sicurezza mediante una sorta di legittima difesa. Questa finalità si ritiene possa essere raggiunta attraverso tre modalità. Le due successive al reato sono quella del curare – volta a lenire il dolore delle vittime e dei loro parenti, ovvero a epurare il corpo della società da quello che è considerato un ‘membro malato’ o peggio un ‘virus infetto’ – e quella del retribuire – volta a dare la soddisfazione proveniente dal fatto che ad ogni azione portatrice di dolore ‘deve’ corrispondere una reazione che provoca analoga sofferenza – entrambe ben descritte dal film Dead man walking. La modalità  antecedente al reato è quella del prevenire il contagio del male – volta a dare l’esempio e a funzionare da deterrente – fino ai paradossi temporali-metafisici acutamente descritti nel film Minority report.

Anche qui è interessante cogliere le difficoltà che hanno gli studenti, non tanto nel capire, bensì nell’accettare quello che si è capito a proposito della complessità di ogni processo (non buonista) di reinserimento e della crudezza degli scopi ultimi – ‘medici’ – della sanzione penale definitiva. Diventa fondamentale, a questo punto, cogliere il presupposto o la convinzione che sta dietro lo scopo e il fine perseguito nell’applicazione di entrambi gli strumenti.

Infatti, mentre coloro che scelgono come maggiormente efficace il giudizio definitivo nutrono sostanzialmente una sfiducia, a volte una mancanza di speranza, nel cambiamento, nel mutamento del reo, coloro che scelgono come maggiormente efficace il giudizio rieducativo hanno una sostanziale fiducia e speranza nel mutamento, nella trasformazione, nella redenzione della mela marcia, di quello che a volte è a tutti gli effetti un mostro. Ma, tragicamente, ciascuna scelta avrà sempre i suoi esempi particolari da portare validamente a sostegno della propria tesi e a confutazione della altrui – da Angelo Izzo  a Pietro Maso (nonostante le statistiche generali dicano altro, ossia che la recidiva di chi ha usufruito di pene alternative è tre volte più bassa – 21% – rispetto a quella di chi ha scontato tutta la pena definitiva – 67%).

Quello che emerge, però, dall’analisi di questi ultimi casi paradigmatici, è il fatto che a differenza del solito motivo secondo cui il cosiddetto cattivo è un prodotto della società in generale (e perciò dovrebbe essere aiutato a ravvedersi e riabilitarsi), qui il captivus è sì un prodotto della società, ma di quella parte cui egli appartiene sin dalla nascita e che lo ha dapprima educato per poi scandalizzarsi del suo male quando ricade su di essa. In tali casi non ci si rende conto che spesso il male compiuto dal captivus non rappresenta altro che la radicalizzazione delle intenzioni (malvagie) profonde e nascoste in quella parte di società – la propria – di cui, durante la crescita, si è fatto esegeta violento: “la carne ai ferri è la tua religione e cerchi un capro nero, lo pascoli in un cimitero e poi lo immoli su un altare in remissione dei tuoi peccati (…) orfano del dubbio, testa nella sabbia: vittima della tua stessa rabbia” (Giù la mani da Caino).

Per questo motivo, crediamo, anche un rapper come Frankie Hi N-R-G, attraverso il titolo dell’album ‘La morte dei miracoli’ – da cui è tratta la canzone appena citata e che richiama le corti dei miracoli di Parigi – vuole far comprendere che coloro che si battono per la moratoria della pena di morte lo fanno, più o meno consapevolmente, in nome di un (per quanto laico) ‘credere’ nel miracolo del cambiamento del reo, ossia a causa di una sorta di ‘fede’ laica in uno dei principi fondamentali dell’umanesimo occidentale.

 

sergioventura@cortiledeigentili.com