14 Giu Fede e ragione nel discorso di Ratisbona
Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” è a cura di Gabriele Palasciano. Un testo di Giuliano Amato.
Tratto da: M. Cartabia e A. Simoncini (a cura di), La legge di Re Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI, Milano, Rizzoli 2013.
C’è un filo rosso limpido e teso nel discorso di Ratisbona, del quale sono chiari gli svolgimenti, ma di cui ancora devono essere esplorate e messe a fuoco tutte le implicazioni.
Il filo è presente già nell’inizio, nel ricordo che il Papa dedica al vecchio ateneo nel quale lui stesso insegnava, agli incontri con i colleghi, all’universitas scientiarum di cui tutti erano e si sentivano partecipi. È un inizio che può sembrare protocollare o esornativo, perché è certo elegante e, se si vuole, accattivante che un professore diventato Papa cominci così una lezione universitaria che è stato chiamato a tenere. Ma c’è assai di più in quel ricordo dell’universitas scientiarum, c’è già l’impostazione del tema che la lezione verrà svolgendo, il tema dell’appartenenza della teologia alle scienze, secondo una visione di queste che ne contesta la limitazione alle sole discipline in grado di provare empiricamente le tesi che vi si sostengono. E c’è la conseguenza che ciò porta con sé, vale a dire la correlazione costitutiva tra fede e ragione.
Il discorso fonda storicamente e concettualmente la correlazione tra fede e ragione sull’incontro fra spirito greco e spirito cristiano e quindi su “quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito ed agisce”. È questo, secondo Benedetto XVI, un asse irrinunciabile nella comprensione della fede cristiana, che lo porta a valutare criticamente le varie forme, cristiane e non cristiane, di volontarismo e di trascendentalismo (fino all’immagine del Dio-Arbitrio) e lo porta altresì a prendere le distanze dallo stesso Kant, che ancorò la fede alla ragion pratica, avendo ritenuto, per farle spazio, “di dover accantonare il pensiero”.
Poiché è Kant stesso a dirlo, come non far risalire anche a lui la responsabilità per la successiva identificazione delle scienze nelle sole scienze naturali, quelle nelle quali il vero e il falso trovano il loro fondamento nelle sole prove sperimentali? Con una singolare conseguenza, perché un approdo del genere cancella, insieme alla teologia, tutte le scienze, a partire dalla stessa disciplina di Kant, la filosofia, che studiano non la composizione della materia ma il senso di essa. E che si provano a rispondere non solo a chi chiede dove siamo, ma anche a chi chiede da dove veniamo e dove andiamo.
Ponendo queste domande e contrastando allo stesso tempo la de-ellenizzazione della cristianità in nome del logos, la ragione che così il Papa afferma non è solo quella, pur determinante, dell’argomentazione razionale nel dibattito pubblico, in chiave rawlsiana (1), ma è altresì quella che da’ un fondamento di verità razionale all’ethos e quindi al riconoscimento dell’altro con tutto ciò che ne segue. Certo, per il cristiano il riconoscimento dell’altro ha anche un’altra matrice, quell’ amore che “come dice Paolo, sorpassa la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero”. E tuttavia questa forza potentissima nello spingere verso ciò che è giusto è e rimane pur sempre amore per il Dio-logos Ed è il logos che, indicando la stessa direzione e la stessa meta, tiene altresì lontani dall’ubris, che secondo Benedetto XVI è uno dei più pericolosi veleni che inquinano i rapporti umani.
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