27 Apr Etica e trascendenza
Salvator Rosa, Democrito in meditazione, 1662 – Roma, Istituto Centrale per la Grafica
Rio de Janeiro, 7 aprile 2016 – Card. Gianfranco Ravasi
Nella prefazione al suo Tractatus logico-philosophicus (1921) il filosofo viennese Ludwig Wittgenstein, illustrando lo scopo della sua ricerca, affermava che era sua intenzione investigare i contorni di un’isola, ossia l’uomo circoscritto e limitato. Ma ciò che aveva alla fine scoperto erano le frontiere dell’oceano. La metafora è chiara: se si percorre il litorale di un’isola, guardando solo al suo tracciato terrestre, si riesce a computarla, definirla, identificarla. Ma se lo sguardo si volge verso l’altro versante della costa, si intuisce il distendersi del mare infinito. In sostanza nell’essere umano si ha un intreccio tra la finitudine e l’infinito, tra un contingente sperimentale e un oltre altrettanto significativo ma più imponderabile.
Tra immanenza e trascendenza
Nella storia del pensiero si sono, così, confrontati due modelli estremi. C’è chi ha optato solo per l’isola, scegliendo le varie forme di immanentismo, coi loro corollari gnoseologici, etici, esistenziali, persino sociali. Essi potevano anche esasperarsi, come nel razionalismo, nel materialismo, nel fenomenismo, nel relativismo, nel soggettivismo, nel secolarismo, nello stesso postumanesimo e in certi approcci tecnologici radicali. L’antropologia risulterebbe, così, amputata da ogni dimensione trascendente, fissandosi solo su un orizzonte privo di verticalità. C’è, però, anche l’estremo opposto del trascendentalismo, che si protende soltanto verso l’oceano, il mistero, l’infinito e l’eterno, talora decollando dalla realtà verso il cielo purissimo ma astratto del dogmatismo, del fondamentalismo, dell’ideologismo e persino dell’assolutismo sacrale.
Bisogna, però, ricordare che un’ampia porzione della ricerca filosofica e soprattutto teologica si è invece sforzata di tenere insieme “simbolicamente” le due sponde, la terrena e l’infinita, combattendo ogni radicalismo esclusivista. Certo, l’equilibrio è delicato perché deve tenere intrecciate tra loro dimensioni dotate di una loro autonomia come la fisica e la metafisica, la prassi e l’etica, la storia e l’eterno. Già la cultura classica, soprattutto greca, è stata veramente esemplare nel compiere questa operazione “sim-bolica”. Proponiamo solo qualche esempio in modo molto semplificato.
Platone svela nel suo Iperuranio la presenza dei tre grandi trascendentali del Vero, del Bene e del Bello: essi si irradiano e vengono partecipati divenendo il fondamento di ogni ente, di ogni razionalità, di ogni etica. Aristotele – seguito poi da s. Tommaso d’Aquino – punterà, invece, a un vertice unico supremo, l’Essere, primo motore perfetto e immobile, principio però dell’uno, del vero, del bene e“pensiero del pensiero” di ogni essere umano. Plotino, col neoplatonismo e con la successiva riflessione agostiniana, porrà all’apice il Nous trascendente, una Mente che è Essere e Bene divino dalla quale procede la totalità degli esseri, in una sequenza decrescente di perfezione fino al livello estremo ove l’essere si dissolve nel nulla.
Tutte queste concezioni, pur nelle loro diversità e variazioni, cercano di comporre un nesso stretto tra il trascendente e l’immanente. Se vogliamo stare al livello morale, bisogna riconoscere che, quanto più ci si distacca dal bene trascendente – attraverso le scelte negative della libertà umana –, tanto più cresce e imperversa l’immoralità, cioè l’empietà, la falsità, l’odio, la bruttura etica e la bruttezza estetica. Questa prospettiva ha una sua rappresentazione molto suggestiva nell’antropologia della Bibbia che è, pur sempre, il nostro “grande codice culturale”. Bisogna innanzitutto ricordare che, soprattutto per il cristianesimo (ma i prodromi sono già nella “rivelazione storica” dell’Antico Testamento), fondamentale è il legame tra trascendenza e immanenza.
È ciò che esprime la dottrina cristiana dell’Incarnazione, luminosamente definita nel celebre prologo del Vangelo di Giovanni. Da un lato, c’è l’affermazione del Lógos che è «in principio, presso Dio ed è Dio… Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (1,1-3). D’altro lato, c’è la convinzione che «il Lógos divenne sarx» (1,14), cioè carnalità, fragilità, caducità, immanenza finita e mortale. Jorge Luis Borges riprendeva e rielaborava liberamente ma incisivamente il passo evangelico nella sua poesia Giovanni 1,14: «Io so che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo […]. / Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un’umile anima […]. / Fui amato, compreso, esaltato e appeso a una croce».
Ora, per tornare al tema della trascendenza etica, a livello biblico è emblematica la scena di esordio della stessa Bibbia: l’uomo e la donna sono collocati, nei cc. 2-3 della Genesi, all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un albero intoccabile, cioè trascendente e preesistente, fisso nella sua entità che precede ed eccede la pur reale libertà umana. Quell’albero diventa, quindi, il simbolo della morale. Certo, la scelta libera della persona può accogliere quella determinazione trascendente del bene e del male, oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male, relativizzando così l’assolutezza dei valori morali. La stessa rappresentazione è presente nel Decalogo che è proposto dall’alto della vetta del Sinai, dalla voce divina, simbolo della trascendenza dell’etica che è in sé codificata. Ma anche in questo caso, decisiva è la libertà umana che può accogliere, custodire e osservare la legge morale, oppure ricomporla a suo piacimento, come accade nell’episodio altrettanto simbolico del vitello d’oro (Esodo 32).
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