Educare alla persona, alla carità, alla verità

“La famiglia del pittore” di Henri Matisse

 

Lectio Magistralis di S.E. Cardinale Gianfranco Ravasi in occasione del conferimento della laurea h.c. Pontificia Università Cattolica di Paranà, 12 aprile 2016.

«L’impronta iniziale che uno riceve dall’educazione (paideia) segna anche tutta la sua condotta successiva». Queste parole di Platone nel suo dialogo Repubblica (IV, 425b) possono essere assunte a emblema per la riflessione su un tema che è capitale nella missione di una università. Già nell’antichità classica si confrontavano due modelli, di per sé distinti ma non alternativi. Da un lato, c’era la scuola retorica che esaltava l’eloquenza, cioè la formazione nella comunicazione della verità e dei messaggi. D’altro lato, c’era la scuola filosofica che insisteva sulla necessità di una fondazione e di una formazione nei contenuti.

Naturalmente il primato deve andare ai contenuti e alla loro selezione e verifica. Tuttavia, come suggestivamente ammoniva nei suoi Saggi il filosofo francese Montaigne, non basta arredare la testa di temi vari e di nozioni perché fondamentale è «la tête bien faite plutôt que bien pleine» (I, 25), cioè modellare il pensare più che colmare il cervello di dati. È il «travailler à bien penser», l’impegnarsi a pensare bene e correttamente come «principio della morale», per citare un altro filosofo francese, Pascal nei suoi Pensieri (n. 347). È, questo, un monito rilevante in una società come la nostra nella quale la civiltà informatica sta generando una sorta di deriva per la quale alla bulimia dei contenuti indiscriminatamente offerti, soprattutto ai giovani, “nativi digitali”, corrisponde una radicale anoressia di metodo, di educazione selettiva e quindi di capacità critica. Ora nell’orizzonte tematico immenso dell’educazione noi proporremo liberamente tre percorsi ideali tra i tanti possibili.

L’isola e l’oceano

Facciamo entrare in scena innanzitutto il volto dell’uomo e della donna, il soggetto centrale di ogni educazione e formazione culturale. Il concetto di persona, alla cui nascita hanno contribuito anche altre correnti di pensiero, acquista infatti nel mondo ebraico-cristiano una particolare configurazione che ora rappresenteremo facendo riferimento a due testi biblici essenziali che sono quasi l’incipit assoluto dell’antropologia cristiana e della stessa antropologia occidentale.

Il primo testo proviene da Genesi 1,27, quindi dalle prime righe della Bibbia: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Di solito questa frase è intesa all’interno della tradizione – basti pensare a s. Agostino – come dichiarazione implicita dell’esistenza dell’anima: l’immagine di Dio in noi è la spiritualità. Tutto ciò è, però, assente nel testo, anche perché l’antropologia biblica non ha particolare simpatia per la concezione anima/corpo separati, posti in tensione secondo il modo platonico, oppure uniti alla maniera aristotelica.

Qual è, allora, la caratteristica fondamentale che definisce l’uomo nella sua dignità più alta, “immagine di Dio”? La struttura tipica di questa frase, costruita secondo le norme della stilistica semitica, rivela un parallelismo progressivo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina [è, questo, il parallelo di “immagine”] li creò». Ma Dio è forse sessuato? Nella concezione biblica la dea paredra è sempre esclusa, in polemica con la cultura indigena cananea. E allora, come mai l’essere maschio e femmina è la rappresentazione più alta della nostra dignità trascendente?

Appare qui la prima dimensione antropologica: essa è “orizzontale”, cioè la grandezza della natura umana è situata nella relazione tra maschio e femmina. Si tratta di una relazione feconda che ci rende simili al Creatore perché, generando, l’umanità in un certo senso continua la creazione. Ecco, allora, un primo elemento fondamentale: la “relazione”, l’essere in società è strutturale per la persona. L’uomo non è una monade chiusa in sé stessa, ma è per eccellenza un “io ad extra”, una realtà aperta. Solo così egli raggiunge la sua piena dignità, divenendo l’“immagine di Dio”. Questa relazione è costituita dai due volti diversi e complementari dell’uomo e della donna che si incontrano (rilevante, al riguardo, è la riflessione di Lévinas). Su questo aspetto ritorneremo nel secondo percorso che desideriamo sviluppare.

Sempre restando nell’ambito del principio personalista, sottolineiamo un’ulteriore dimensione, di indole più “verticale”, che illustriamo ricorrendo a un’altra frase della Genesi: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo». Ciò è tipico di tutte le cosmologie orientali ed è una forma simbolica per definire la materialità dell’uomo. Ma si aggiunge: «e soffiò nelle sue narici una nishmat hayyîm e l’uomo divenne un essere vivente» (2,7).

Per intuire il vero significato del testo è necessario risalire all’originale ebraico: nishmat hayyîm, locuzione che nell’Antico Testamento ricorre 26 volte e, curiosamente, è applicata solo a Dio e all’uomo, mai agli animali (rûah, lo spirito, l’anima, il respiro vitale per la Bibbia è, invece, presente anche negli animali). Questa specifica categoria antropologica è spiegata da un passo del libro biblico dei Proverbi dal dettato originale molto barocco e semitico: la nishmat hayyîm nell’uomo è «una lampada del Signore, che illumina le camere oscure del ventre» (20,27). Sciogliendo la metafora possiamo tradurre: «è una lampada del Signore: essa scruta dentro, fin nell’intimo». […]

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