Dopo l’inferno, la speranza

da “Il Sole 24 Ore” – 22 gennaio 2017 – di Gianfranco Ravasi.

Ritorno sul tema dell’oltrevita che ho già proposto in altre occasioni. Questa volta mi muoverò più liberamente nell’incessante produzione e, anche se a livello carsico, si lascia attrarre da questo soggetto, nonostante – o forse proprio per questo – il fatto segnalato da Bacone: «Gli uomini temono la morte, come i bambini temono il buio». Spesso, perciò, gli scritti maggiori oscillano tra due estremi. Li potrei rappresentare con altrettante battute lapidarie. Da una parte, Schopenhauer nel suo capolavoro Il mondo come volontà e come rappresentazione (1819): «Desiderare l’immortalità è desiderare la perpetuazione in eterno di un grave errore». D’altro lato, Spinoza nella sua Etica dimostrata col metodo geometrico (1677): «Sentiamo e sappiamo di essere eterni».

Mi accontenterò, comunque, di tre segnalazioni. Inizierò col novantenne ma ancor vivace Jürgen Moltmann, uno dei maggiori teologi viventi, emerito dell’università di Tubinga. Il tema dell’escatologia è quasi come un palinsesto della sua produzione, a partire da quella famosa Teologia della speranza (1964) che lo rese noto anche fuori dell’orto teologico, data la sua interlocuzione col monumentale Principio speranza (1954-59) del marxista (eterodosso) Ernst Bloch. Ora egli si riaffaccia con un saggio per molti aspetti attraente sia per il cristiano sia per il non credente (il sottotitolo lo definisce, infatti, «un contributo all’attuale dibattito sull’ateismo»). E anche qui si riaffaccia Bloch col quale il teologo ha messo in atto – come confessa – «una trattazione parallela del suo principio speranza», dichiarando però che ora vorrebbe soprattutto «mettere in evidenza le differenze di una teologia della speranza rispetto alla filosofia atea della speranza» del pensatore tedesco.

Il volume è a dittico con due protagonisti. Nella prima tavola campeggia «il Dio vivente», liberato dai ceppi di concezioni metafisiche per cui appariva come un motore immobile o un essere immutabile e impassibile, oppure come l’Onnipotente relegato nel cielo dorato della sua trascendenza, o un Infinito in dialettica con la realtà creata, o ancora come un mistero ineffabile e così via. L’ancorarsi alle Scritture Sacre fa emergere, invece, un Dio personale, vivente, persino storico, votato alla morte e glorioso al tempo stesso, per cui «questa nostra vita mortale è già vita eterna: noi viviamo nella sua vita eterna anche se moriamo». È così che si trapassa alla seconda tavola del dittico che vede come protagonista la persona umana. Questo è il quadro cromaticamente più ricco. Fuor di metafora, è il ritratto che delinea la nostra “pienezza di vita” in tutte le sue iridescenze tematiche.

I lineamenti sono molteplici e vanno dalla libertà all’amore, dalla gioia alla spiritualità dei sensi fisici, dallo sperare al pensare, dal soffrire alla festa senza fine e così via, in un arcobaleno che conosce il violetto dell’esistenza terrena ma si protende verso il rosso fiammeggiante dell’eternità senza soluzione di continuità. L’aspetto suggestivo di questo abbozzo antropologico è anche nel dialogo costante con la cultura, da Schiller a Dostoevskij, da Buddha a Hegel («la nottola di Minerva di Hegel e l’allodola dell’aurora»), da Goethe a Feuerbach fino a Schmitt e persino Bakunin.

A proposito del dialogo interculturale, si può associare a Moltmann un’altra figura accademica rilevante, lo storico Peter Brown, emerito di Princeton, che affronta il nostro tema da una particolare angolatura, illustrata anche in questo caso dal sottotitolo del suo saggio, Aldilà e ricchezza nel primo cristianesimo occidentale, in ideale continuità con la sua precedente opera Per la cruna di un ago del 2014, che aveva studiato «la ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo». Il percorso proposto da Brown è ovviamente storico e parte dal culto dei morti nel primo cristianesimo, abbracciando l’arco che va dal 250 al 650. Si penetra, così, in una rete di intrecci complessi, che si annodano attorno alla realtà del peccato che esige riscatto sia nel presente sia nell’oltrevita.

Entra, così, in scena la questione economica per ottenere – attraverso riti, sepolcri, opere caritative espiatorie, atti penitenziali – proprio quella redenzione necessaria per approdare alla beatitudine paradisiaca. Il Salmista, in realtà, era convinto che «l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo; troppo caro sarebbe il riscatto di una vita, non sarà mai sufficiente per vivere senza fine… Solo Dio riscatterà la mia vita strappandola dalla mano degli inferi» (Salmo 49,8-10.16). Sta di fatto, però, che nella tradizione cristiana si è fatta strada una connessione tra tesoro terreno costituito dai beni economici e tesoro salvifico nei cieli ove «né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano» (Matteo 6,20).

Talvolta Brown sembra usare il suo modello interpretativo, che ha un suo indubbio riscontro nel sistema di pensiero e di prassi della cristianità, come esclusivo e quindi onnicomprensivo di una realtà più complessa e mobile. È, comunque, suggestivo inseguire questo snodarsi di fili economici e teologici che si dipanano e spesso si arruffano nell’orizzonte terreno e meta­storico, talora anche con un’ansia pastorale genuina. È il caso di Gregorio vescovo di Tours del IV secolo, desideroso di innestare l’altro mondo nel presente attraverso quella che i teologi definiscono come “escatologia realizzata” (o almeno “realizzantesi”). Certo è che il deterrente di fondo e di sfondo è l’inferno che per Bernanos era «il non amare più», per Verlaine l’«assenza» per eccellenza, per Papini «il paradiso capovolto» e per Sartre più sbrigativamente «gli altri».

A descriverlo senza mai averlo visitato si sono dedicate legioni di scrittori a partire ovviamente da Dante, così come non sono mancati coloro che hanno dipinto la «tavola delle gioie del paradiso», titolo di un tomo di 640 pagine che il gesuita tedesco Jeremias Drexel pubblicò nel 1609 per ingolosire e convertire i peccatori. Delizioso è, invece, nonostante il contenuto macabro e talora indecifrabile, il poemetto L’inferno allestito (in ebraico Toftèh ’arûk) del rabbino Mošèh Zacuto, nato ad Amsterdam ma vissuto a Venezia e a Mantova dove morirà nel 1697. Non abbiamo la possibilità di poterlo ora descrivere, ma la sontuosa introduzione e la raffinata traduzione (con testo ebraico a fronte) di Michela Andreatta, che insegna ebraico a Rochester negli Usa, permetteranno uno straordinario viaggio non solo nelle bolge del nadir fosco e tormentato della Geenna ma anche nel metatesto di questo rabbino marcato da rimandi al fluido mondo cabalistico e alla parenesi giudaica, peraltro non dissimile da quella cristiana barocca contemporanea a Zacuto. Una lettura brutale eppur affascinante perché, come dice nell’ultima riga l’autore, «l’inferno [da lui] allestito… è perfetto!».