Attualità di «Quo vadis?»

La locandina di «Quo vadis?» di M. LeRoy (1951) con R. Taylor, P. Ustinov e D. Kerr

 

da “Il Sole 24 Ore” – 7 febbraio 2016 – di Gianfranco Ravasi

Se Checco Zalone ha scelto di intitolare Quo vado? il suo fortunatissimo film, è perché era certo che il titolo Quo vadis? del celebre romanzo dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz era ancora inchiodato nella memoria collettiva, anche se ben pochi degli spettatori hanno letto quel «vecchio feuilleton protocristiano», come l’ha definito il critico Marco Beck. In realtà, questo imponente romanzo storico, pubblicato a puntate nel 1895-96 da ben tre quotidiani in contemporanea, in altret­tante città della Polonia (Varsavia, Cracovia e Poznań), e in volume unico nel 1896, aveva attirato su di sé l’attenzione del cinema già nel 1913, allorché il regista Enrico Guazzoni su di esso aveva realizzato il primo colossal della storia del cinema con un cast di cinquemila persone e ben trenta leoni.

Ma tutto questo era destinato a impallidire quando nel 1951, dopo il rifiuto di John Huston, Mervyn LeRoy girò un analogo mastodontico filmone con uno scialo di comparse (trentamila!), di costume (trentaduemila!), di soggetti da interpretare (centodieci!), con protagonisti del calibro di Robert Taylor, Peter Ustinov, Deborah Kerr, mentre le giovanissime Sophia Loren ed Elizabeth Taylor si dovevano accontentare del ruolo di comparse, rispettivamente come schiava e come cristiana nel Colosseo, mentre Bud Spencer era relegato tra le guardie. Tutti quelli della mia generazione hanno certamente visto questo film, come era accaduto a me ragazzo, sui sedili di legno di un oratorio parrocchiale o di un cinema cittadino per quasi tre ore. Che il romanzo fosse popolare anche in seguito risulta dal fatto che la RAI lo propose in televisione nel 1985 con la regia di Franco Rossi e nel 2005 Gabriele Salvatores ammiccava ancora ad esso col suo Quo vadis, baby?

I lettori si staranno interrogando sulla ragione di questa mia divagazione filmico­letteraria. La motivazione è un po’ estrinseca, ma significativa: il 15 novembre di cent’anni fa, a Vevey, sul lago di Ginevra, moriva a 70 anni proprio Sienkiewicz, prolifico scrittore ma anche grande viaggiatore (era appassionato di Roma e Venezia, ma aveva soggiornato in California, in Africa e in tutta l’Europa). Egli ormai era carico di gloria (aveva ricevuto il Nobel nel 1905) nonostante l’amarezza per la “russificazione” a cui la sua patria era stata sottoposta dal regime zarista. Tra l’altro, egli era in Svizzera proprio per un’operazione di fund-raising a favore dei combattenti polacchi nel primo conflitto mondiale. La sua produzione era stata fluviale, tant’è vero che la sua opera omnia edita tra il 1948 e il 1955 comprende almeno sessanta tomi, un mare testuale sempre segnato da filo esplicito o sottinteso della fede e della morale cristiana e dell’amor patrio.

È curioso notare che la prima traduzione italiana apparve a puntate sul Corriere di Napoli nel 1899, col sostegno invece di un noto esponente massonico, lo scrittore Giacomo Bovio, nonostante la reazione sarcastica della Tribuna, rivista di matrice massonica, che si chiedeva: «Chi è mai questo Sienkiewicz il cui nome somiglia a uno starnuto?». In realtà si credeva che si trattasse di un nom de plume del traduttore dal francese dell’opera (da cui derivava la versione italiana), un tale Verdinois partenopeo. Paradossalmente, la polvere depositata su queste pagine è stata soffiata via ai nostri giorni proprio dal suo tema centrale apparentemente remoto, ossia l’eroismo del protomartiri cristiani, pronti ad affrontare la ferocia dispotica di Nerone, le più atroci torture e una morte tragica pur di tenere alta la fiaccola della loro fede. È noto, infatti, che un altro potere cieco e crudele oggi sta striando di sangue cristiano il terreno di molte regioni di Asia e Africa.

In filigrana alla trama che non dobbiamo ora riassumere si intuisce, però, anche la passione dell’autore per la sua patria. Vorrei, a questo proposito, evocare solo un particolare poco sottolineato. Nella traduzione italiana la protagonista femminile si chiama Licia: in realtà questa, che è stata definita «la Psiche cristiana», nell’originale polacco aveva il nome di Ligia, un termine derivante dal popolo dei Ligi che abitavano tra l’Oder e la Vistola e che molto liberamente Sienkiewicz considerava gli antenati dei Polacchi, tant’è vero che egli confessava a un amico: «Mi è caro pensare che Ligia fosse polacca». Probabilmente anche il possente Ursus, gigante generoso ai suoi occhi incarnava ancora il popolo polacco che salva Ligia, cioè se stesso con le proprie energie, dal bufalo inferocito germanico. Come sanno tutti i lettori del romanzo, la forza della fede della bellissima fanciulla cristiana si intreccerà con la tenerezza dell’amore del patrizio romano Vinicio che alla fine sarà pronto ad abbracciare lui pure la religione cristiana.

Grande e abile artefice di scene di massa (chi non ricorda la trascrizione filmica della corsa delle bighe che verrà riedita in un altro film colossal, Ben Hur?), ma anche fine ritrattista dei personaggi più diversi (si pensi al raffinato Petronio o al subdolo ma alla fine eroico Chilone o, naturalmente all’implacabile e crudele Nerone), Sienkiewicz ha creato un modello narrativo insuperabile che era già in technicolor sulla pagina scritta, prima di diventarlo sullo schermo. Non per nulla il romanzo fu tradotto in quasi tutte le lingue principali del mondo e in italiano si calcola che ebbe oltre cento edizioni. Il suo autore divenne un emblema della fede cristiana nella sua purezza e grandezza evangelica ma anche il vessillo della coscienza e della dignità del popolo polacco. Certo, l’enfasi tematica, il ricorso incessante agli effetti speciali narrativi, l’impeto degli ideali rendono quest’opera oggi meno godibile letterariamente e meno incisiva spiritualmente.

Tuttavia una sorta di filo musicale simbolico la percorre, un filo che attraversa anche molti degli scritti di questo autore, in passato tutti abbondantemente tradotti nella nostra lingua (una decina solo tra il 1889 e il 1890): è quella che in polacco è definita con un vocabolo intraducibile: t sknota. È una specie di struggimento d’amore che unisce nostalgia e speranza, è qualcosa di simile all’altrettanto intraducibile saudade brasiliana, con una dose però di fede e di fiducia nella salvezza. In finale dobbiamo riservare una nota anche all’origine del titolo latino. Si tratta della frase-chiave di un racconto presente in uno scritto apocrifo del II secolo, gli Atti di Pietro. L’apostolo, sotto l’incubo della persecuzione neroniana, viene spinto dai cristiani romani ad abbandonare la capitale per salvare la sua vita e continuare a testimoniare la memoria di Cristo.

«Ma, mentre attraversava la porta della città, vide il Signore che entrava in Roma e gli disse: Signore, dove vai [quo vadis?]. Il Signore gli rispose: Vado a Roma per esservi crocifisso di nuovo [Eo Romam iterum crucifigi]. E Pietro: Per essere di nuovo crocifisso? Rispose: Sì, Pietro, sarò nuovamente crocifisso! Pietro, allora, rientrato in se stesso, vide il Signore salire in cielo. Ritornò allora a Roma sereno, glorificando il Signore che aveva detto: Sarò crocifisso! Era quello che doveva accadere a Pietro» (35,6,2). Sulla via Appia Antica, nei pressi delle Catacombe di San Callisto, si leva ancor oggi la chiesa del Domine quo vadis? che risale al IX sec. e che fu riedificata nel Seicento, con una facciata del 1637 voluta dal cardinale Francesco Barberini. In essa si custodisce la copia di una pietra con le impronte leggendarie dei piedi di Gesù (l’originale è ora nella vicina basilica di San Sebastiano), ed è per questo che la chiesa è detta anche di Santa Maria in palmis (cioè delle piante dei piedi di Cristo), proprio in ricordo dell’episodio narrato dagli Atti di Pietro.